L’America di Trump e l’ombra del suprematismo

Le parole di Paul Ingrassia su Martin Luther King e “la civiltà bianca” mostrano la deriva ideologica di un partito prigioniero del suo leader

Paul Ingrassia

Il caso di Paul Ingrassia, l’ultimo candidato di Donald Trump costretto al ritiro dopo la pubblicazione di chat intrise di razzismo e ammiccamenti al nazismo, è solo l’ennesimo episodio di una lunga serie. La cronaca americana, ormai, sembra un catalogo di nomine mancate o revocate non per motivi di competenza, ma per la scoperta di ideologie inaccettabili, che pure trovano spazio, consenso e perfino difesa negli ambienti vicini al presidente.

Ingrassia, avvocato e commentatore politico, avrebbe dovuto guidare l’Office of Special Counsel, l’istituzione deputata a garantire l’integrità etica dell’amministrazione federale. Una posizione che, in una democrazia sana, dovrebbe essere affidata a figure irreprensibili. Invece, a pochi giorni dalla conferma al Senato, sono emerse sue frasi in cui confessava di avere «una vena nazista» e attaccava Martin Luther King Jr., definendolo «il George Floyd degli anni ’60». Commenti che non sono semplici “gaffe”: rivelano un orientamento culturale e morale incompatibile con il servizio pubblico.

Il sistema di potere del trumpismo

Il ritiro di Ingrassia non cancella però la domanda più inquietante: perché individui simili arrivano così vicino al potere? La risposta è politica, non solo personale. Negli Stati Uniti di Trump, il confine tra l’estremismo ideologico e la legittimità istituzionale è stato sistematicamente eroso. L’idea di “purificare” il governo da quella che i trumpiani chiamano “deep state” ha creato un vuoto di etica riempito da personaggi che vedono la democrazia liberale come un ostacolo e non come un valore.

L’estremismo come nuova normalità

Non è un caso isolato. Dalla Casa Bianca ai think tank della nuova destra americana, proliferano figure che flirtano apertamente con il suprematismo bianco, con il negazionismo storico o con un revisionismo volto a “riabilitare” il razzismo come parte legittima dell’identità occidentale. L’influenza di ideologi come Steve Bannon, o la vicinanza a personaggi come Nick Fuentes e Andrew Tate, non sono deviazioni marginali, sono indicatori di un’egemonia culturale che la destra trumpiana sta cercando di costruire.

Dietro la retorica della “difesa della civiltà occidentale” si nasconde una visione profondamente antiamericana. Gli Stati Uniti sono nati come progetto pluralista, fondato, almeno idealmente, sull’eguaglianza e sul diritto universale. Trasformare quella storia in un mito etnico, bianco e cristiano, significa negare la promessa originaria della nazione. È un’operazione di riscrittura identitaria che usa il linguaggio del patriottismo per legittimare il pregiudizio.

Il silenzio complice del Partito Repubblicano

Il caso Ingrassia mostra anche la responsabilità del Partito Repubblicano. Se alcuni senatori, come John Thune, hanno chiesto il ritiro della nomina, molti altri tacciono o minimizzano. La paura di contraddire Trump, ancora padrone del partito, paralizza ogni reazione morale. La stessa incapacità di dire “no” a un candidato che ammette simpatie naziste rivela quanto il trumpismo abbia corroso la coscienza istituzionale del conservatorismo americano.

La malattia morale della democrazia americana

Ciò che un tempo sarebbe stato inconcepibile oggi è diventato quasi normale. Le frasi razziste non squalificano più di per sé un politico; devono prima diventare un imbarazzo pubblico, un problema di “immagine”, non di sostanza. È questa la vera vittoria del trumpismo, la normalizzazione dell’estremismo, la sua trasformazione in un linguaggio politico accettabile, in una “opinione” fra le altre.

Il ritiro di Paul Ingrassia non è, dunque, una buona notizia. È solo un sintomo di un corpo politico malato, in cui l’antisemitismo e il suprematismo possono insinuarsi fino ai vertici del potere. Finché quella malattia non verrà riconosciuta e curata, la democrazia americana resterà vulnerabile non ai suoi nemici esterni, ma a quelli che parlano in suo nome.