“Arc de Trump”: Il ritorno del Re Sole

Dopo la sala da ballo dorata, ecco l’arco trionfale, Trump trasforma Washington in una corte imperiale

Donald Trump

C’è chi costruisce ponti, chi mura e chi archi. Donald Trump, coerente con la sua estetica dorata e il suo narcisismo monumentale, ha deciso che l’America ha bisogno di un nuovo simbolo, non di democrazia, ma di sé stesso. Un “Arc de Triomphe”, pardon, un “Arc de Trump”, come già lo chiamano con ironia i media internazionali.

Il progetto, presentato in pompa magna durante un evento di fundraising, prevede un grande arco trionfale a pochi passi dal Lincoln Memorial. Un luogo dove la memoria del presidente che liberò gli schiavi e tenne unito il Paese si troverà, presto, a condividere lo skyline con il monumento di un uomo che liberò solo il proprio ego.

Secondo fonti vicine alla Casa Bianca, Trump avrebbe seguito personalmente la progettazione, scegliendo tra tre versioni, piccola, media e grande, e, naturalmente, optando per quella “più imponente”. Del resto, non ci si poteva aspettare altro da chi ha fatto della grandeur la propria grammatica estetica. L’arco, nelle immagini diffuse, è un trionfo di pietra, colonne, aquile e dorature. Sulla sommità, una figura alata dorata: forse un angelo, o forse un autoritratto simbolico, a sancire l’ascesa dell’“uomo che non si arrende mai”.

C’è qualcosa di irresistibilmente comico in questo progetto, e insieme di profondamente inquietante. Perché non si tratta solo di un esercizio di architettura kitsch, è la traduzione materiale di un’idea politica. Trump non costruisce un arco per l’America, ma per sé stesso, come un sovrano che vuole lasciare un segno tangibile del proprio passaggio. La stessa logica che lo ha portato a volere una sala da ballo in stile Luigi XIV alla Casa Bianca: se la Repubblica americana non ha un palazzo reale, lui ne fabbricherà uno.

L’“Arc de Trump” non celebra una vittoria collettiva, ma l’ego individuale. È l’arco di chi non ha conquistato un impero, ma pretende gli onori dell’imperatore. È il monumento a un potere che si misura in metri di marmo e carati d’oro.

Certo, il presidente ha assicurato che l’opera sarà finanziata con fondi privati. Ma, al di là dei dollari, la vera questione è politica: quale idea di America vuole celebrare questo arco? Quella dei padri fondatori, che sognavano una repubblica sobria e razionale, o quella di un leader che sogna Versailles sul Potomac?

Trump, non pago di aver firmato un ordine esecutivo che impone lo stile classico per gli edifici federali, vuole ora trasformare Washington in una sorta di Las Vegas imperiale, dove ogni colonna deve gridare “grandezza” e ogni cornice riflettere il suo riflesso. È un’estetica della nostalgia, ma di una nostalgia inventata, un passato che non è mai esistito, se non nelle fantasie di chi confonde la maestà con la vanità.

L’arco trionfale, nella storia, ha sempre avuto un senso politico preciso: celebrare la vittoria, il ritorno del condottiero, la gloria della nazione. L’Arc de Trump, invece, celebra l’eterna campagna elettorale di un uomo che ha trasformato la politica in spettacolo e il potere in decorazione.

Forse, alla fine, l’America non ha davvero bisogno di un arco trionfale. Ha bisogno di memoria, di sobrietà, di equilibrio. Ma, nell’epoca dei reality e dei social, Trump ha capito una verità elementare, un arco d’oro fa più rumore di una Costituzione. E così, tra colonne e aquile, forse il presidente non costruisce solo il suo monumento, ma anche, inconsapevolmente, la caricatura definitiva del suo stesso mito.