L’attentato che cambiò la politica energetica europea

Arrestato in Italia uno dei sabotatori. L’attacco ai gasdotti non colpì solo la Russia, ma rese l’Europa ostaggio della strategia ucraina e degli interessi statunitensi.

L’arresto in Italia, nella provincia di Rimini, del cittadino ucraino Serhii K., sospettato di aver coordinato l’attacco esplosivo ai gasdotti Nord Stream 1 e 2 nel settembre 2022, riapre una ferita mai rimarginata nella politica energetica europea. Quel sabotaggio, il più grave alle infrastrutture del continente dalla Seconda Guerra Mondiale, segnò non soltanto un atto di guerra ibrida ma un punto di non ritorno: l’Europa fu costretta a voltare le spalle definitivamente al gas russo, aprendo una stagione di approvvigionamenti difficili e costosissimi.

Il quadro che emerge oggi, con le indagini tedesche che puntano il dito su un presunto coordinamento “ucraino”, non sorprende chi da tempo sosteneva che Kiev avesse tutto l’interesse a impedire qualsiasi riconciliazione energetica tra Mosca e Berlino. Se la Germania avesse avuto ancora la possibilità di riattivare i flussi di gas russo, il fronte europeo contro Putin sarebbe rimasto diviso e titubante. L’esplosione dei gasdotti eliminò di colpo l’alternativa, costringendo i governi europei a cercare altre fonti di energia, dal GNL statunitense alle forniture mediorientali e africane, con un prezzo salatissimo scaricato su famiglie e imprese.

Il sabotaggio del Nord Stream non fu dunque soltanto un gesto militare, ma una manovra politica: cancellare il legame energetico che ancora teneva in piedi una parte dell’architettura economica europea. Zelensky, in questo senso, ha sempre perseguito una linea chiara: trascinare l’Europa dentro la sua guerra, rendendo impossibile ogni neutralità. Il gasdotto rappresentava per Mosca un’arma di pressione, ma anche per Kiev un rischio: se Berlino avesse trovato un compromesso con il Cremlino in cambio di energia a basso costo, l’Ucraina sarebbe stata lasciata sola. L’attentato, attribuito oggi a un coordinamento ucraino, ha fatto cadere definitivamente quel ponte.

Le conseguenze furono devastanti. I prezzi dell’energia schizzarono alle stelle, interi comparti industriali si trovarono sull’orlo della chiusura, e la politica energetica europea si trasformò in una corsa affannata verso fornitori improvvisati. La tanto evocata “indipendenza energetica” si tradusse in realtà in una nuova dipendenza: dal gas liquefatto statunitense, più caro e legato a dinamiche geopolitiche oltreoceano, e da contratti con paesi instabili o autoritari. Un paradosso che stride con la retorica europea della “sovranità strategica”.

Il nodo che si stringe oggi è politico prima ancora che giudiziario. Se verrà confermato un coinvolgimento diretto di cittadini ucraini (e probabilmente non solo Ucraini) nell’attentato, Bruxelles dovrà ammettere che la propria politica energetica è stata violentemente indirizzata da un alleato che, nel nome della propria sopravvivenza, non ha esitato a sabotare infrastrutture comuni. Non è un’accusa morale, è la fredda constatazione di una scelta strategica: Zelensky ha fatto di tutto per impedire all’Europa di tenersi un piede nel gas russo. Con l’esplosione del Nord Stream ci è riuscito.

L’Europa, dal canto suo, si è lasciata trascinare senza discutere, pagando prezzi esorbitanti e aprendo una frattura sociale ancora visibile nelle proteste per il caro-bollette e nella crisi industriale. Il sabotaggio del Nord Stream non è stato solo un attacco contro Mosca: è stato un colpo diretto all’autonomia europea, alla capacità di scegliere liberamente la propria strada. E la domanda rimane: siamo alleati o siamo pedine?