
La guerra in Ucraina continua a mietere vittime, e mentre sul campo si combatte con missili e droni, nelle stanze ovattate della diplomazia internazionale si combatte un altro conflitto, fatto di sanzioni, minacce, trattative segrete e tensioni che attraversano i continenti. È in questo scenario che il presidente degli Stati Uniti, Donald Trump, ha deciso di prorogare lo stato di emergenza nazionale contro la Russia di un ulteriore anno, estendendone la validità fino ad aprile 2026.
La proroga, pubblicata ufficialmente sul Registro Federale degli Stati Uniti, conferma che le sanzioni imposte inizialmente da Joe Biden nell’aprile del 2021 resteranno in vigore: congelamento degli asset russi, restrizioni sui visti, divieti di collaborazione con aziende e strutture governative accusate di “attività sovversive contro gli interessi americani”. L’ordine firmato da Trump sottolinea che la minaccia posta dalla Russia “continua a rappresentare un pericolo straordinario e insolito per la sicurezza nazionale, la politica estera e l’economia degli Stati Uniti”.
La decisione non arriva nel vuoto. Le motivazioni della proroga, illustrate nel documento della Casa Bianca, spaziano dall’interferenza russa nelle elezioni americane, agli attacchi informatici, dalla corruzione transnazionale fino alla repressione di oppositori e giornalisti fuori dai confini russi. Washington accusa Mosca anche di destabilizzare aree strategiche come il Medio Oriente e l’Europa orientale e di ignorare i principi del diritto internazionale.
“La pressione delle sanzioni resta uno strumento chiave per la difesa degli interessi americani e dell’ordine globale”, recita il comunicato ufficiale. Nonostante il cambio di amministrazione, la linea americana su Mosca resta immutata. Un’unità di intenti bipartisan che si è consolidata nel tempo, tra repubblicani e democratici, come risposta alla principale minaccia alla stabilità mondiale.
Ma se da un lato gli Stati Uniti serrano i ranghi, dall’altro la Russia alza il tiro. L’11 aprile, il ministro degli Esteri russo Sergej Lavrov ha dichiarato, al termine del vertice della Comunità degli Stati Indipendenti ad Almaty: “Zelenskij non avrà altra scelta che fare concessioni territoriali. Tornare ai confini del 1991 è impossibile”. Un messaggio diretto non solo a Kiev, ma anche a Washington, che in quelle stesse ore cercava di imprimere una svolta alla trattativa con un pressing diplomatico senza precedenti.
In quei giorni, infatti, l’inviato speciale di Trump per il Medio Oriente, Steven Witkoff, era in missione a San Pietroburgo per incontrare Vladimir Putin. Un faccia a faccia durato oltre quattro ore e mezza, definito “produttivo” da Kirill Dmitriev, direttore del Fondo Russo per gli Investimenti Diretti. Witkoff avrebbe presentato al leader del Cremlino un ultimatum, secondo quanto riferito dal portale Axios: se Mosca non accetterà un cessate il fuoco entro la fine di aprile, le sanzioni non solo resteranno, ma verranno inasprite ulteriormente.
Lo stesso Trump, attraverso un post sul suo social Truth, ha rincarato la dose: “La Russia si deve muovere. Troppe persone stanno morendo, migliaia ogni settimana, in una guerra terribile e insensata. Una guerra che non sarebbe mai iniziata se io fossi stato presidente!!!”.
Il presidente ucraino Vladimir Zelenskij, intervenuto da Kryvy Rih – città colpita il 4 aprile da un missile balistico russo che ha ucciso 19 persone, tra cui nove bambini – ha risposto senza giri di parole: “È passato un mese da quando la Russia ha respinto la proposta statunitense di un cessate il fuoco completo e incondizionato. Questo mese ha reso completamente chiaro che la Russia è l’unica causa di questa guerra”.
E ha rilanciato l’appello agli alleati: “L’Ucraina ha carenza di sistemi di difesa aerea. I sistemi Patriot possono proteggerci dalle minacce balistiche. Vi chiedo dieci sistemi Patriot. Il mondo libero li ha”.
Nel frattempo, il fronte diplomatico si complica. Se da un lato Witkoff propone di riconoscere il “diritto di proprietà” russo su quattro regioni ucraine occupate – Doneck, Lugansk, Zaporož’e e Cherson – dall’altro Keith Kellogg, rappresentante speciale di Trump per le questioni Russia-Ucraina, smentisce categoricamente: “L’Ucraina non accetterà mai di cedere unilateralmente la piena sovranità su quelle regioni”.
Kellogg è stato anche accusato, da alcuni media, di voler dividere l’Ucraina come Berlino dopo il 1945. Accusa che ha respinto con fermezza: “Sono stato travisato”.
Il Cremlino, da parte sua, continua a invocare la fine delle sanzioni, proponendo persino la ripresa dei voli commerciali tra Stati Uniti e Russia. “La ripresa dei collegamenti aerei dovrebbe essere una conseguenza della rimozione delle sanzioni contro Aeroflot”, ha dichiarato Lavrov, sottolineando che “gli americani l’hanno recepita, ma finora non abbiamo visto alcuna risposta concreta”. Tuttavia, questa richiesta contrasta con le parole di Kirill Dmitriev, che alla Fox News aveva dichiarato: “Mosca non chiede la revoca delle sanzioni”.
Nel frattempo, il conflitto sul campo continua. Secondo i dati ufficiali diffusi l’11 aprile, la Russia ha lanciato in un solo mese quasi 70 missili, oltre 2.200 droni kamikaze Shahed e più di 6.000 bombe aeree guidate.
E mentre le trattative per il cessate il fuoco si arenano, Washington e Teheran hanno riaperto un altro dossier esplosivo: il nucleare iraniano. Dopo anni di silenzio, il primo round di colloqui tra USA e Iran si è svolto a Mascate, in Oman, grazie alla mediazione del ministro degli Esteri omanita Badr bin Hamad al-Busaidi.
“Come primo confronto è stato positivo: nessun linguaggio offensivo, ma un dialogo serio”, ha dichiarato Abbas Araghchi, capo della delegazione iraniana. Anche Witkoff, che guidava la delegazione americana, ha confermato che “una comunicazione diretta sarà fondamentale per raggiungere un possibile accordo”.
Trump però ha avvertito: “Se i negoziati falliranno, sarà un giorno molto brutto per l’Iran”. Il programma nucleare iraniano oggi è più avanzato che mai. Secondo l’AIEA (Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica), Teheran ha accumulato uranio arricchito fino al 60%, ben vicino alla soglia del 90% necessaria per un’arma nucleare. E Israele rilancia: il premier Benjamin Netanyahu propone un’intesa “sul modello libico”, ovvero la rinuncia totale al programma nucleare. Ma per l’Iran, tale proposta è “inaccettabile”.
A complicare ulteriormente lo scenario, il segretario della NATO Mark Rutte ha lanciato l’allarme: “La Russia potrebbe inviare armi nucleari nello spazio. Questo costituirebbe una minaccia per i satelliti di tutto il mondo”.
Nel frattempo, le relazioni economiche tra Washington e Mosca sono ferme. Tutti i canali di cooperazione scientifica e tecnologica sono stati interrotti. Secondo gli analisti, anche in caso di distensione politica, “il pieno ripristino richiederà anni, se non decenni”.
E mentre il petrolio russo torna a fluire attraverso l’oleodotto Družba verso la Repubblica Ceca, il prezzo dell’Urals è sceso sotto i 60 dollari al barile, rendendo possibile il trasporto su petroliere assicurate da compagnie occidentali, come riferito da Bloomberg. Allo stesso tempo, il trasporto del petrolio americano verso l’Europa è aumentato del 50% a marzo, con un costo di circa 4,60 dollari al barile.
Il portavoce del Cremlino, Dmitrij Peskov, ha definito l’incontro con Witkoff “professionale” e non ha escluso “nuovi contatti diretti tra Putin e Trump”. Ma intanto, il tempo stringe. Gli Stati Uniti vogliono un’intesa entro aprile. E se Mosca non dovesse cedere, le conseguenze potrebbero essere devastanti.
In un’intervista alla BBC, l’ambasciatore russo nel Regno Unito, Andrej Kelin, ha avvertito: “Non abbiamo intenzione di affrettarci solo per creare un’immagine da mostrare all’opinione pubblica”. E ha aggiunto: “Gli Stati Uniti conoscono bene la nostra posizione. Vogliamo una soluzione su larga scala, una volta per tutte”.
La diplomazia continua a muoversi. Ma tra minacce, contraddizioni e promesse disattese, la pace – oggi più che mai – appare lontana come un miraggio.
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