
La Commissione, guidata da Ursula von der Leyen, è chiamata a gestire una crisi che mette in gioco miliardi di euro e l’intera credibilità della politica commerciale dell’UE. Eppure, la risposta è apparsa debole, disorganica, segnata più da compromessi al ribasso che da una visione strategica comune. Le proposte di contromisure unitarie si scontrano con le resistenze di alcuni Stati membri, divisi tra chi vorrebbe un atteggiamento più assertivo e chi teme le ripercussioni di una guerra commerciale aperta.
Una risposta europea che non arriva
Ursula von der Leyen sembra imbarcare acqua da tutte le parti al timone della Commissione europea, trovandosi sempre un passo indietro rispetto a Donald Trump, tornato alla Casa Bianca con toni muscolari e una strategia commerciale aggressiva.
Il presidente USA sembra puntare più a destabilizzare i propri rivali che a trovare soluzioni. Ha annunciato dazi fino al 30% su una vasta gamma di prodotti europei a partire dal 1° agosto, trasformando la politica commerciale in uno strumento di pressione geopolitica.
Ma anche oltreoceano qualcosa si incrina: borse e mercati hanno iniziato a ignorare gli annunci tariffari di Trump, trattandoli come numeri a caso, più simili a una lotteria che a una linea economica coerente. Mentre Washington agita le acque, Bruxelles fatica a reagire, bloccata da trattative infinite, divisioni interne e una leadership che appare sempre più incerta.
Governi contro la Commissione
A rendere ancora più difficile la posizione della Presidente è il crescente protagonismo – e la divergenza strategica – dei governi nazionali. Se Germania e Francia apparivano allineate sul fronte ucraino, le tensioni commerciali con gli Stati Uniti hanno messo in luce una frattura profonda. Berlino e Roma, fortemente dipendenti dall’export verso gli USA, preferiscono muoversi con cautela. Una risposta aggressiva rischierebbe di danneggiare miliardi di euro in esportazioni e migliaia di posti di lavoro, soprattutto nei settori industriali più fragili.
La Germania osserva con preoccupazione la crisi del suo comparto automobilistico. Il cancelliere Friedrich Merz punta sul dialogo con Washington. Sostiene una linea più conservatrice per proteggere un’industria già in difficoltà.
Al contrario, Emmanuel Macron alza i toni. Il presidente francese rilancia l’idea di un’Europa più sovrana, pronta a rispondere con propri dazi. Questa distanza strategica rende evidente l’assenza di una visione comune e indebolisce la credibilità dell’Unione.
Le divergenze tra Parigi e Berlino – un tempo motore dell’integrazione europea – si trasformano oggi in un ostacolo strutturale. Von der Leyen resta così esposta alle spinte nazionali, sempre più divergenti.
Nel mezzo c’è l’Italia di Giorgia Meloni. La premier puntava su un rapporto privilegiato con la nuova amministrazione Trump. Ma ora si trova in una posizione scomoda. I dazi colpiscono in pieno il Made in Italy, in particolare agroalimentare, farmaceutico e meccanica. Il tentativo di proporsi come ponte tra Bruxelles e Washington sembra già fallito. A complicare il quadro ci pensano anche le divisioni interne. Il vicepremier Matteo Salvini ha dichiarato che “i dazi potrebbero rappresentare un’ulteriore fonte di guadagno per le imprese italiane”, smentendo di fatto la linea prudente del MEF e della Farnesina.
Von der Leyen in crisi di leadership
In questo contesto, von der Leyen fatica a imporsi come figura guida. La sua leadership è messa in discussione non solo per la gestione incerta della crisi commerciale, ma anche per l’incapacità di costruire un consenso politico solido in un’Europa sempre più frammentata. Il rischio è che venga percepita come una leader tecnica, priva della forza politica necessaria per orientare l’Unione.
L’assenza di un piano credibile per affrontare l’offensiva commerciale americana preoccupa le imprese europee, mentre la difficoltà nel guadagnare peso sul piano internazionale indebolisce ulteriormente la sua figura, già poco sostenuta da alcuni governi nazionali.
Un’Europa fragile davanti ai venti della crisi
Le tensioni con gli Stati Uniti arrivano in un momento estremamente delicato. L’economia europea continua a risentire degli effetti dell’inflazione, della bassa produttività e del rallentamento di settori chiave come quello automobilistico. Un’escalation di dazi rischia di colpire duramente comparti strategici mettendo a rischio competitività e occupazione.
La fragilità dell’Unione, però, non è solo frutto delle incertezze della Commissione. È la frammentazione dei governi nazionali a rappresentare oggi la principale debolezza del progetto europeo. Le divisioni politiche impediscono di costruire un fronte comune e lasciano ogni Paese da solo, incapace di trattare efficacemente con gli Stati Uniti, nemmeno quando si vantano relazioni privilegiate.
A preoccupare, più di tutto, è il segnale politico: un’Europa divisa, priva di visione e di unità, non solo non difende i propri interessi, ma rischia di diventare irrilevante nello scacchiere globale.