Un’alba che non sorge: la fragile tregua di Trump a Gaza

Il cessate il fuoco annunciato come una “svolta storica” vacilla sotto le bombe israeliane, le ambiguità di Hamas e il silenzio imposto ai giornalisti

Gaza City

Donald Trump l’ha definita “l’alba storica di un nuovo Medio Oriente”. Ma a Gaza, più che un nuovo giorno, si respira l’odore acre della polvere da sparo. Il cessate il fuoco del 10 ottobre, presentato in pompa magna come il preludio alla pace, si è trasformato in un fragile intermezzo in cui il silenzio delle armi è solo momentaneo, e ogni ora può riportare il frastuono delle bombe.

La retorica della pace e la realtà del conflitto

Il presidente americano, con la sua retorica da costruttore di pace e la stessa teatralità con cui firma accordi commerciali, aveva promesso un futuro di stabilità. Ma la realtà, sul terreno, è un’altra. Israele ha già ripreso gli attacchi “mirati”, giustificandoli come risposta a violazioni del cessate il fuoco da parte di Hamas. Lo schema è noto: un pretesto, una rappresaglia, poi un’altra accusa. In questo circolo vizioso, la tregua si logora prima ancora di consolidarsi.

Un accordo senza fondamenta

L’annuncio del cessate il fuoco, salutato come un trionfo diplomatico a Sharm El-Sheikh, non ha toccato le cause profonde del conflitto: la questione della sovranità palestinese, il blocco economico e la totale mancanza di fiducia reciproca. Trump ha preferito la simbologia della “pace firmata” ai meccanismi concreti per garantirla. Il risultato è un documento che appare più come un esercizio di propaganda che un progetto politico sostenibile.

Le crepe della tregua

Le prime crepe sono emerse subito. Il piano di pace in 20 punti prevedeva il rilascio di ostaggi e prigionieri, un gesto simbolico e mediatico, ma non ha stabilito chi, concretamente, governerà Gaza nel dopoguerra. Hamas resta al comando de facto, Israele minaccia di tornare se “i suoi termini non saranno rispettati”, e l’Autorità Palestinese è rimasta spettatrice impotente. In mezzo, una popolazione civile devastata, secondo la BBC, il 90% delle infrastrutture è stato distrutto in un anno.

L’umanitario in ostaggio

Mentre i leader discutono di “fasi successive”, i camion umanitari restano fermi al valico di Rafah. Israele promette di aprirlo “in una fase successiva”, senza specificare quando. Ogni giorno di ritardo significa bambini senza acqua potabile, ospedali senza elettricità, feriti senza cure. In questo contesto, la “pace” proclamata da Trump appare come una scenografia costruita per le telecamere.

La verità sotto embargo

E proprio le telecamere, o meglio, la loro assenza, raccontano la verità più scomoda dell’accordo. Nell’elenco delle clausole firmate a Sharm El-Sheikh non compare una parola sull’accesso dei giornalisti internazionali alla Striscia di Gaza. Una scelta tutt’altro che casuale. Impedire ai reporter di entrare significa impedire al mondo di vedere ciò che accade davvero dietro le rovine. Significa controllare la narrativa, oscurare le esecuzioni sommarie, le vendette, gli abusi. In un conflitto dove la propaganda vale quanto le armi, la verità è diventata un bersaglio.

La guerra delle versioni

Israele, con la complicità del silenzio americano, continua a gestire la guerra dell’informazione con la stessa precisione con cui gestisce le sue incursioni aeree. Ogni “violazione del cessate il fuoco” diventa un pretesto per riprendere i bombardamenti, e ogni esplosione viene giustificata come “atto difensivo”. Intanto, i media sono esclusi dal teatro dei fatti, costretti a ricostruire le notizie attraverso frammenti di comunicati ufficiali e video non verificabili.

Un’alba che non sorge

La tregua di Gaza, dunque, non è che una tregua apparente. Non c’è pace dove manca la trasparenza, dove i testimoni sono banditi e le parole sostituiscono i fatti. L’alba storica di Trump rischia di essere ricordata come l’ennesimo miraggio nel deserto mediorientale, un gioco di luci diplomatico dietro cui si nasconde la stessa, antica oscurità.