Nel dibattito pubblico europeo il conflitto tra Russia e Ucraina è stato rapidamente trasformato in una contrapposizione morale assoluta. Fin dalle prime settimane dell’invasione russa, la complessità geopolitica della guerra è stata sacrificata sull’altare di una narrazione binaria che ha imposto una scelta di campo netta, emotiva e spesso isterica. Da una parte l’Ucraina, elevata a simbolo di resistenza e adesione ai valori occidentali; dall’altra la Russia, ridotta a incarnazione esclusiva del male politico contemporaneo.
In questo schema semplificato, ogni tentativo di analisi strutturale è stato percepito come un atto di ambiguità, se non di complicità. Comprendere le ragioni di Mosca è stato confuso con il giustificarle; interrogarsi sugli errori dell’Occidente è stato letto come un tradimento; mettere in discussione la sostenibilità a lungo termine del conflitto è diventato sinonimo di resa politica. Il risultato è stato un progressivo impoverimento del discorso strategico, proprio mentre la guerra si estendeva nel tempo, nello spazio e nelle sue conseguenze sistemiche.
Eppure, la guerra russo-ucraina non è un incidente della storia né un’esplosione improvvisa di irrazionalità. È il prodotto di una stratificazione di fattori storici, politici e militari che coinvolgono l’intera architettura di sicurezza europea. Ridurre il conflitto a una logica di tifoseria non solo ne oscura le cause profonde, ma contribuisce a renderlo più lungo e più difficile da risolvere.
Il sostegno europeo all’Ucraina è stato presentato prevalentemente come una scelta di natura etica. In realtà, sul piano strategico, esso risponde prima di tutto a una logica di autodifesa. L’invasione russa del febbraio 2022 ha messo in discussione uno dei pilastri fondamentali dell’ordine europeo costruito dopo la Seconda guerra mondiale e consolidato dopo la fine della Guerra fredda: l’inviolabilità dei confini e il rifiuto dell’uso della forza come strumento di revisione territoriale.
Per l’Unione Europea, e in particolare per i Paesi del fianco orientale, l’eventualità che la Russia potesse ottenere vantaggi politici o territoriali attraverso l’azione militare avrebbe significato aprire una breccia potenzialmente irreversibile nell’architettura di sicurezza continentale. Non era in gioco soltanto il destino dell’Ucraina, ma la credibilità stessa del sistema di deterrenza su cui si fonda la stabilità europea. In questo senso, il sostegno a Kiev è stato percepito come un investimento preventivo nella sicurezza collettiva, più che come un gesto di solidarietà disinteressata.
La guerra ha inoltre costretto l’Europa a confrontarsi con la propria fragilità strutturale. Per decenni, la sicurezza militare è stata delegata agli Stati Uniti, l’approvvigionamento energetico alla Russia e una parte rilevante della capacità industriale alla Cina. Un modello sostenibile in tempo di pace, ma rivelatosi fragile e contraddittorio in un conflitto ad alta intensità. Il sostegno all’Ucraina è diventato così anche un tentativo, spesso reattivo e non pianificato, di difendere un sistema che mostrava tutte le sue crepe.
Comprendere le motivazioni della Russia non equivale a legittimare l’aggressione militare. Tuttavia, senza tenere conto della percezione russa della sicurezza, ogni analisi resta incompleta. Dal punto di vista di Mosca, la fine dell’Unione Sovietica non ha rappresentato una transizione ordinata verso un nuovo equilibrio, ma una perdita traumatica di status, influenza e profondità strategica.
Negli anni successivi al 1991, la progressiva espansione della NATO verso Est è stata vissuta dal Cremlino come un processo di accerchiamento. Al di là delle dichiarazioni occidentali sull’assenza di intenti offensivi, la presenza di un’alleanza militare storicamente antagonista sempre più vicina ai confini russi ha alimentato una percezione di vulnerabilità che ha inciso profondamente sulle scelte strategiche di Mosca.
In questo quadro, l’Ucraina ha assunto un valore simbolico e strategico particolare. Non solo per ragioni geografiche o militari, ma come nodo identitario e storico che il potere russo ha sempre considerato parte integrante della propria sfera di sicurezza. L’ipotesi di una piena integrazione di Kiev nell’orbita euro-atlantica è stata interpretata come una perdita definitiva, capace di compromettere la deterrenza convenzionale russa e di ridurre drasticamente la sua capacità di influenza regionale.
La decisione di ricorrere alla forza è stata probabilmente accompagnata da un grave errore di calcolo. Il Cremlino ha sottovalutato la capacità di resistenza ucraina, la coesione occidentale e la durata del conflitto. L’idea di un’operazione rapida, in grado di imporre un nuovo equilibrio prima di una reazione coordinata, si è rivelata illusoria, trasformando l’intervento in una guerra di logoramento dalle conseguenze imprevedibili.
Nel racconto pubblico occidentale, l’Ucraina è stata spesso rappresentata come un attore privo di responsabilità politiche. Anche questa narrazione è parziale. Negli anni precedenti al 2022, il Paese ha attraversato una transizione complessa, segnata da instabilità politica, conflitti interni irrisolti, livelli elevati di corruzione e tensioni identitarie. La gestione del Donbass e delle politiche linguistiche ha contribuito ad alimentare un clima di frizione costante con Mosca.
Tuttavia, riconoscere queste criticità non significa mettere sullo stesso piano responsabilità politiche e uso della forza militare. L’Ucraina si è trovata in una posizione strutturalmente fragile, schiacciata tra interessi geopolitici contrapposti e con margini di manovra estremamente ridotti. La sua trasformazione in terreno di scontro per equilibri più ampi resta uno degli aspetti più tragici del conflitto.
La guerra ha messo in luce anche le responsabilità dell’Occidente. Per anni, l’Unione Europea ha perseguito una politica ambigua nei confronti della Russia, fondata su un equilibrio instabile tra condanna formale e cooperazione economica. Una strategia che ha garantito vantaggi immediati, ma ha prodotto vulnerabilità strutturali nel medio-lungo periodo.
Allo stesso tempo, l’assenza di una reale autonomia strategica europea ha reso il continente dipendente da decisioni esterne. La guerra ha costretto l’Europa a reagire più che a guidare, evidenziando la mancanza di una visione condivisa sulla sicurezza e sulla difesa. In questo senso, il conflitto russo-ucraino è anche uno specchio delle contraddizioni occidentali.
Accanto al conflitto militare si è sviluppata una guerra dell’informazione che ha inciso profondamente sul dibattito pubblico. La narrativa russa, fondata su di argomentazioni difensive e revisioniste, si è contrapposta a una comunicazione occidentale fortemente moralizzata, orientata al mantenimento del consenso interno. In entrambi i casi, lo spazio per un’analisi critica si è progressivamente ristretto.
Questa dinamica ha avuto un effetto a dir poco perverso: ha reso politicamente costoso ogni tentativo di compromesso, alimentando una escalation narrativa che si riflette anche sul piano militare. La guerra non viene solo combattuta, ma raccontata in modo tale da rendere la sua conclusione sempre più complessa.
Guardando al futuro, lo scenario che si profila oggi a Berlino appare bifronte: da un lato l’ipotesi di un cessate il fuoco capace di congelare la linea del fronte, dall’altro la costruzione di un nuovo equilibrio di sicurezza europeo che, almeno nelle intenzioni, dovrebbe prevenire una nuova escalation.
Il contesto, come riporta Reuters, è quello di negoziati intensi che hanno visto un riallineamento tra Washington e Kiev, con il coinvolgimento diretto del presidente ucraino Vladimir Zelenskij, dei vertici UE e NATO e di numerosi leader europei, mentre gli Stati Uniti erano rappresentati dagli inviati Steve Witkoff e Jared Kushner.
Da Washington, Donald Trump ha alimentato la percezione di una svolta imminente. Nello Studio Ovale ha confermato di aver parlato “di recente” con Vladimir Putin e ha dichiarato che un’intesa sulla fine della guerra sarebbe “più vicina che mai”. Una lettura che trova riscontro anche nel Financial Times, secondo cui l’amministrazione statunitense sta spingendo per chiudere il dossier ucraino tenendo conto dei rapporti di forza maturati sul terreno. Allo stesso tempo, però, Trump ha adottato una linea esplicitamente realista sul nodo territoriale, affermando che l’Ucraina “ha già perso” porzioni del proprio territorio e indicando il Donbass come il principale punto di frizione nei negoziati.
La giornata di Berlino si è chiusa con un segnale politico rilevante per l’Unione Europea. In una dichiarazione congiunta, i leader hanno ribadito l’impegno, insieme agli Stati Uniti, a sostenere Kiev e a predisporre garanzie di sicurezza robuste nel quadro di un accordo di pace. Il cuore della proposta resta ambizioso e controverso: forze armate ucraine mantenute a livelli elevati in tempo di pace, una forza multinazionale a guida europea con supporto statunitense e un meccanismo di monitoraggio del cessate il fuoco guidato da Washington.
Sul piano politico, Friedrich Merz ha descritto questo passaggio come il primo spiraglio credibile dall’inizio della guerra. Zelenskij, pur riconoscendo i progressi sui meccanismi di sicurezza, ha sottolineato come la questione territoriale resti aperta, con posizioni ancora distanti sul Donbass.
In altre parole, il negoziato avanza su ciò che può essere progettato tecnicamente, ma si arresta di fronte a ciò che resta politicamente ed emotivamente esplosivo: confini, sovranità, legittimità delle conquiste sul terreno.
È qui che riaffiora il rischio di un ritorno a una logica da Guerra fredda. La struttura dell’accordo in discussione sembra orientata più a stabilizzare il fronte che a risolvere il conflitto. La deterrenza incorporata nella tregua può ridurre il rischio di una ripresa immediata delle ostilità, ma al prezzo di istituzionalizzare una divisione permanente.
Un’Ucraina fortemente armata, affiancata da una presenza multinazionale europea e da una supervisione americana, rischia di trasformarsi in una frontiera militarizzata stabile. Un assetto che garantisce sicurezza nel breve periodo, ma consolida una “pace armata” più che una pace piena.
Il Donbass, in questo quadro, resta l’archetipo del conflitto congelato: territorio conteso, leva negoziale, simbolo politico. Se a ciò si aggiunge l’assenza di un compromesso territoriale riconosciuto come legittimo dalle parti e dalle rispettive società, la traiettoria più probabile è quella di una tregua lunga e incompleta.
Il punto chiave è che un cessate il fuoco può essere storico senza essere risolutivo. È possibile interrompere le ostilità attraverso un sistema di garanzie robuste; è molto più difficile trasformare quella interruzione in una pace capace di sciogliere i nodi politici di fondo. Il prezzo di questa scelta è una stabilità rigida, a blocchi, che mantiene alta la tensione sul fianco orientale europeo.
In definitiva, se la pace viene concepita soprattutto come “non far ripartire la guerra”, senza affrontare il nodo dei territori e della collocazione strategica dell’Ucraina, il rischio è quello di un armistizio prolungato. E nella storia europea, gli armistizi prolungati hanno spesso avuto un nome più sincero: frontiere congelate.
La tragedia del conflitto russo-ucraino non risiede soltanto nelle sue vittime o nella distruzione materiale. Risiede anche nell’incapacità collettiva di affrontarlo con lucidità. Finché il dibattito resterà imprigionato in una logica di schieramento emotivo, ogni tentativo di comprensione sarà sospetto e ogni proposta di soluzione verrà percepita come una resa.
Uscire dalla tifoseria non significa rinunciare ai principi: significa difenderli attraverso l’analisi, riconoscendo che la sicurezza non nasce dagli slogan, ma dalla comprensione delle dinamiche che generano il conflitto. In assenza di questo sforzo, il conflitto rischia di protrarsi anche oltre il silenzio delle armi, trasformandosi in una stabilità apparente, fragile e permanente, consumata più dalla propaganda che dalla strategia.
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