Turismo italiano, l’economia dell’apparenza: chi perde e chi incassa

Dietro le cartoline da sogno, una realtà precaria e diseguale.

Con agosto alle porte, si rimette in moto quella che viene spesso descritta come la locomotiva dell’economia italiana: il turismo. Migliaia di turisti stranieri e italiani affollano spiagge, borghi e città d’arte. Le strutture ricettive si riempiono, i ristoranti fanno il pieno, i trasporti registrano numeri record. In superficie, tutto sembra funzionare: il turismo cresce, l’economia ringrazia.

Ma scavando sotto la superficie scintillante dei numeri record si scopre un sistema fragile, diseguale, e tutt’altro che trainante. Il turismo italiano non traina l’economia, bensì viene trainato dalla domanda esterna: è una rendita di posizione, alimentata più dal patrimonio storico e paesaggistico che da politiche industriali, innovazione o investimenti mirati.

I vincitori? Pochi. I sacrificati? Tanti.

Il mito del “petrolio italiano” si infrange contro una realtà ben diversa. I benefici economici del boom turistico sono fortemente concentrati tra pochi grandi operatori, con le piattaforme digitali (Booking e Airbnb), e catene di lusso che ne assorbono la gran parte. La base della piramide – formata da microimprese familiari, lavoratori stagionali, guide, camerieri, addetti alla pulizia e al trasporto – vive di precarietà, paghe da fame e assenza di prospettive.

Secondo i dati ISTAT, nel 2023 il comparto turistico impiegava oltre 385.000 persone, ma oltre l’80% dei nuovi contratti è a termine o stagionale. La retribuzione media nelle attività ricettive è tra le più basse d’Italia: 26.041 euro lordi annui, con valori inferiori per le donne (25.283 euro) e per i contratti non stabili (fino a 2.900 euro in meno rispetto agli indeterminati). I lavoratori alla base della piramide spesso non superano i 25.000 euro lordi l’anno, i salari tra i più bassi d’Europa nel settore dei servizi, pur lavorando in condizioni intense e flessibili.

Il lavoro nero, i turni massacranti e la mancanza di tutele restano diffusi. A ciò si aggiunge la scarsissima redistribuzione della ricchezza prodotta: il turismo rappresenta circa il 6,2% del PIL italiano in termini di valore aggiunto diretto, ma ben pochi ne traggono un beneficio concreto. Le risorse si concentrano in poche mani, mentre il capitale umano è sottovalutato, mal pagato e scarsamente valorizzato da politiche formative o industriali adeguate.

Inoltre, molti dei numeri record attribuiti al turismo non distinguono il consumo turistico vero e proprio da quello dei residenti, che durante l’estate affollano ristoranti e locali, alterando le statistiche. Così, anche la narrazione ottimistica risulta distorta: crescono i flussi, ma non il benessere, né individuale né territoriale.

Un settore che cresce… ma non fa crescere

Il turismo italiano non produce innovazione, non investe in formazione, non genera occupazione qualificata. Il valore aggiunto medio per lavoratore resta basso, la produttività stagnante. A differenza di altri settori industriali o tecnologici, qui la crescita non si traduce in sviluppo: si moltiplicano le presenze, ma non le opportunità.

Le scuole professionali sono spesso scollegate dalle esigenze del settore, i fondi per la formazione sono scarsi, e le politiche pubbliche sono episodiche e frammentate. Il risultato? Un capitale umano sacrificato, incapace di costruire un sistema competitivo nel lungo periodo.

Il turismo italiano fa PIL, ma non fa sistema

L’Italia ha il patrimonio culturale, paesaggistico e gastronomico più invidiato del mondo. Ma senza una visione industriale e redistributiva, il turismo resta un colosso dai piedi d’argilla: pronto a cadere alle prime crisi globali, alle ondate climatiche, alle mode che cambiano.

È tempo di smascherare la narrazione romantica del turismo come risorsa inesauribile. È ora che le istituzioni smettano di inseguire i numeri delle presenze, e comincino a porsi domande più scomode: Chi davvero guadagna dal turismo?  Che tipo di occupazione stiamo creando? Perché un settore così grande non produce benessere diffuso?

 Un mito da rifondare

Le città d’arte sono sempre più invivibili per i residenti, i borghi turistici svuotati d’inverno, il lavoro è stagionale e sottopagato, e il sistema produttivo resta privo di una strategia industriale, formativa e innovativa.

Il turismo può essere una risorsa strategica. Ma per diventarlo davvero deve redistribuire ricchezza, valorizzare il lavoro, innovare modelli e formare competenze.

Continuare a venderlo come “petrolio italiano” significa solo alimentare un’illusione. Perché il petrolio, prima o poi, si esaurisce. E anche la pazienza di chi, ogni estate, regge sulle spalle l’intero settore.