
A chi ancora considera gli Stati Uniti un faro di libertà e democrazia liberale, le recenti dichiarazioni di Donald Trump pronunciate in Florida dovrebbero suonare come un allarme. Minacciare pubblicamente l’arresto di Zohran Mamdani, candidato democratico a sindaco di New York, non è solo un’iperbole da palcoscenico elettorale: è il segnale inquietante di una politica che, sotto l’egida del presidente, sembra virare sempre più verso l’autoritarismo.
Mamdani, 34 anni, figlio dell’immigrazione e volto emergente del progressismo newyorkese, ha espresso l’intenzione di ostacolare le operazioni di deportazione dell’ICE nel caso venisse eletto. Una posizione legittima, per quanto controversa. Ma la risposta di Trump è stata brutale, degna di un autocrate: “Allora dovremo arrestarlo”.
Non è la prima volta che il tycoon brandisce il linguaggio del potere assoluto per intimidire chi lo contrasta. Lo ha fatto con i giudici, con i giornalisti, con i procuratori federali. Ora prende di mira un giovane candidato che osa proporre un’alternativa allo status quo, in una delle città più simboliche e complesse d’America. Invece del confronto sulle idee, Trump evoca scenari da stato di polizia.
Siamo di fronte a un’inversione profonda dei principi fondanti della repubblica americana. L’idea che un presidente possa decidere chi debba essere perseguito in base alla lealtà politica non è solo aberrante: è pericolosa. La legge, da garanzia di giustizia, rischia di diventare un’arma contro il dissenso.
Zohran Mamdani non è solo un candidato con idee radicali su redistribuzione, immigrazione e giustizia sociale. È anche il simbolo di un cambiamento che inquieta le élite, da Wall Street all’establishment democratico, fino alla destra trumpiana. Nato in Uganda, cittadino americano dal 2018, musulmano in una città con la più grande comunità ebraica del mondo: Mamdani incarna tutto ciò che l’ideologia “etno-nazionalista” trumpiana rifiuta e teme.
Che Trump si spinga a mettere in dubbio persino la sua cittadinanza, “molti dicono che sia qui illegalmente”, evoca retoriche cupe, già udite in contesti ben meno democratici. Delegittimare, minacciare, colpire, è il copione di regimi come quello russo o cinese, non della culla dell’Occidente liberale.
Eppure, questa torsione autoritaria sta entrando con forza nel discorso politico americano. Il caso Mamdani è solo l’ultimo esempio. Il messaggio implicito è chiaro: chi non si allinea rischia la gogna, l’isolamento, o peggio. Trump ha già promesso, in caso di vittoria, tagli ai fondi federali per New York se Mamdani dovesse diventare sindaco, colpendo direttamente l’autonomia di una città che, sulla carta, dovrebbe godere di sovranità amministrativa.
La visione di potere che emerge è distorta e inquietante: il presidente come padrone, gli avversari come nemici da neutralizzare. È una logica estranea allo spirito della Costituzione americana, che si fonda sul pluralismo, sull’equilibrio dei poteri, sul diritto al dissenso.
Più che un’America “great again”, Trump sembra voler costruire un’America impaurita, chiusa, autoritaria. Dove il dissenso è punito. Dove la cittadinanza diventa una concessione revocabile. Dove gli avversari politici non si sfidano alle urne, ma si delegittimano con minacce e repressione.
L’America di Trump non è più il sogno di libertà. È, sempre più, l’incubo di una democrazia sotto assedio.