
C’è una linea sottile tra la deterrenza e l’istigazione alla guerra. Donald Trump, ancora una volta, l’ha oltrepassata. Le rivelazioni della CNN, basate su registrazioni inedite ottenute da tre giornalisti nel loro libro 2024, gettano nuova luce sulla postura internazionale del presidente, rivelando un tratto inquietante: un culto della minaccia come fondamento della politica estera. Altro che “peace through strength” qui si tratta di “strength through fear”.
Durante incontri a porte chiuse con donatori facoltosi, Trump avrebbe raccontato di aver minacciato Vladimir Putin di «bombardare Mosca a tappeto» se avesse invaso l’Ucraina, e di aver rivolto parole simili al presidente cinese Xi Jinping, prospettando una pioggia di bombe su Pechino in caso di aggressione a Taiwan. Il tono non era quello del capo di Stato responsabile che cerca la pace tramite equilibrio e diplomazia, ma quello del bullo che si vanta delle sue minacce come moneta di scambio politica.
Eppure, Trump continua a dipingersi come il candidato della non-interventismo, colui che “non avrebbe mai permesso” la guerra in Ucraina o l’escalation a Gaza. Ma le sue stesse parole lo smentiscono. Già nel 2020 aveva ordinato l’assassinio mirato del generale iraniano Qassem Soleimani, innescando un’escalation con Teheran. Adesso, nell’ultima campagna elettorale, si vantava di aver promesso rappresaglie devastanti contro capitali straniere. Se queste non sono posture guerrafondaie, cosa lo è?
C’è di più: il contesto in cui queste affermazioni vengono fatte, raccolte fondi con l’élite economica, è rivelatore. Trump non parlava alla nazione o al Congresso, ma a un pubblico ristretto di ricchi donatori, cercando approvazione con racconti da film d’azione e minacce nucleari tra un brindisi e l’altro. È un’idea privatizzata della politica estera, svincolata da qualunque processo democratico, e dettata da narcisismo e bisogno di dominare la scena.
Lo stesso disprezzo per la dialettica democratica emerge anche dalle sue parole sugli studenti che protestano nei campus americani rivelate dalla CNN. «Cacciateli fuori dal paese» è una frase che, in bocca a un ex presidente e aspirante futuro comandante in capo, suona come un avvertimento sinistro. La repressione del dissenso, anche quando si tratta di giovani che esprimono opinioni impopolari, è una forma di autoritarismo strisciante. Il nemico, per Trump, non è solo all’estero ma anche nei cortili universitari, tra coloro che dissentono e contestano.
Le registrazioni rivelano dunque una coerenza brutale nel pensiero trumpiano: la forza è l’unico linguaggio, la minaccia è la prima opzione, la libertà è concessa solo a chi si allinea. E mentre lui si propone come l’uomo in grado di “fermare le guerre”, non è difficile vedere in queste parole l’eco di chi si sente attratto, non respinto, dal rischio del conflitto.
In definitiva, Trump non è un pacificatore incompreso, ma un nazionalista muscolare che maschera l’aggressività sotto la retorica della deterrenza. Le guerre, forse, non le inizia direttamente, ma ci cammina attorno con fiammiferi accesi. E questo, in un’epoca dove bastano scelte sbagliate per innescare catastrofi globali, dovrebbe preoccupare ben più dei suoi comizi infuocati. La pace non si costruisce con le minacce, né con le bombe promesse a tavolino. E chi finge il contrario, è già pronto a premere il grilletto.