
Quando Donald J. Trump salì al potere, una promessa dominava il suo messaggio: l’era delle guerre infinite era finita. L’America avrebbe smesso di combattere i conflitti degli altri. “Voglio porre fine alle guerre, non iniziarle”, ripeteva come un mantra, in contrasto con le avventure militari dei suoi predecessori. Eppure oggi, a distanza di pochi mesi dalla sua rielezione, quella promessa appare sbiadita, se non del tutto tradita.
Il ruolo del primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu in questo ribaltamento di paradigma è stato tanto evidente quanto abile. Attraverso un mix di pressioni personali, mosse strategiche e tempismo perfetto, Netanyahu è riuscito a portare il presidente americano più riluttante alla guerra sulla soglia di un confronto diretto con l’Iran. Il tutto in nome della sicurezza di Israele, ma con implicazioni globali.
I retroscena raccontano di un Netanyahu determinato e spregiudicato. A febbraio, durante un incontro alla Casa Bianca, il leader israeliano ha mostrato a Trump un dossier sugli sviluppi nucleari iraniani, condito da un’accusa personale: Teheran aveva tentato di assassinarlo. È stato un momento teatrale, culminato con un monito gelido: “Non si può avere un Iran nucleare sotto la propria sorveglianza”. Trump sembrava colpito, ma non convinto. Chiese tempo. Tentò la via della diplomazia, affidandosi persino a un amico di vecchia data, l’immobiliarista Steve Witkoff, per mediare un accordo.
Sessanta giorni. Era questo il tempo che Trump volle concedere ai negoziati. Quando la finestra si chiuse senza risultati tangibili, la frustrazione si trasformò in apertura verso l’azione militare. Secondo fonti israeliane, era ciò che Netanyahu aspettava: dimostrare che Teheran non aveva alcuna intenzione di trattare. “Non abbiamo nessuno con cui parlare”, fu la frase chiave ripetuta a Washington.
E così, tra accuse iraniane, rapporti dell’AIEA e briefing riservati dell’intelligence israeliana, il clima cambia. Il 13 giugno, la miccia si accende: Israele colpisce, sostenendo di distruggere un terzo dell’arsenale iraniano in due giorni. L’Iran risponde. Le vittime civili si contano subito. E l’America, volente o nolente, si ritrova a un passo dal conflitto diretto.
Trump non ha ancora spiegato la sua inversione di rotta. Di fronte alle parole della direttrice dell’intelligence nazionale Tulsi Gabbard, che confermava l’assenza di una decisione iraniana sulla bomba, si è limitato a dire: “Non mi interessa quello che ha detto. Penso che fossero molto vicini”. Una risposta che ha il sapore dell’alibi più che della convinzione.
Certo, Trump non ha ordinato bombardamenti americani. Ma ha autorizzato un alleato strategico a muovere guerra contando, in caso di ritorsione, sul sostegno statunitense. Alcuni suoi consiglieri, da Stephen Bannon a Tucker Carlson, temono che Israele trascinerà Washington in una guerra che l’America non ha scelto.
Ecco la vera posta in gioco. Non solo l’Iran e la sicurezza nucleare del Medio Oriente. Ma la credibilità di una dottrina politica: quella del ritiro, della prudenza, della priorità agli interessi americani. Netanyahu ha dimostrato che con abbastanza determinazione, pressione e pretesti, anche chi promette la pace può essere condotto alla soglia della guerra.
La storia giudicherà se questo sia stato un errore tattico o una svolta epocale. Ma una cosa è certa: Trump, il presidente che voleva finire le guerre, oggi rischia di essere ricordato come colui che ha riaperto la porta al caos.