
Nel cuore della civiltà occidentale, dove le università dovrebbero essere fari di libertà intellettuale e scambio culturale, l’amministrazione Trump ha sferrato un colpo senza precedenti al sistema accademico statunitense. La revoca della certificazione che consente ad Harvard di iscrivere studenti internazionali non è solo una misura punitiva contro l’ateneo, ma un segnale politico deliberato: l’America di Trump non vuole più essere crocevia del sapere globale, ma cittadella chiusa, dominata dal sospetto e dal calcolo elettorale.
La giustificazione ufficiale, accuse di antisemitismo e legami con la Cina, è una cortina fumogena che nasconde una verità più scomoda: la distruzione della credibilità morale e diplomatica degli Stati Uniti come terra delle opportunità. Harvard, con oltre un quarto dei suoi studenti provenienti da oltre 140 paesi, rappresenta l’essenza stessa dell’eccellenza aperta, della meritocrazia internazionale, dell’“American Dream” che non distingue tra passaporti ma premia il talento.
Ora, quel sogno viene sequestrato da una visione ristretta e revanscista. Trump, lo stesso che accoglie donazioni miliardarie e regali sfarzosi da potenti stranieri, come l’aereo privato ricevuto dal Qatar, si erge a difensore della purezza accademica americana. L’incoerenza è lampante: mentre si finge paladino dell’autonomia nazionale, si intrattiene con élite internazionali ben disposte a finanziare il suo entourage, purché restino fuori gli studenti comuni, i giovani ricercatori, gli aspiranti leader di domani.
Questa decisione non colpisce solo Harvard, ma manda un messaggio minaccioso a tutto il mondo accademico: le università saranno premiate o punite in base alla loro allineamento politico. È una torsione autoritaria che cancella secoli di indipendenza educativa e che, per usare le parole del DHS (Dipartimento per la Sicurezza Nazionale), si giustifica con “la mancata conformità alla legge”, una frase che suona più come avvertimento mafioso che come linguaggio istituzionale.
In questo clima, le università diventano campi di battaglia ideologica, non più luoghi di conoscenza. E gli studenti, soprattutto quelli stranieri, diventano ostaggi: pedine sacrificabili in una partita cinica tra Washington e Pechino, tra consenso interno e paure proiettate.
L’ironia tragica è che gli stessi giovani che vengono esclusi oggi sono quelli che negli anni hanno contribuito a fare delle università americane le migliori al mondo. Privarsene non è solo miope: è autodistruttivo. Un Paese che teme i suoi studenti stranieri è un Paese che ha già rinunciato a guidare il mondo.
La retorica di Trump, “America First”, si rivela per ciò che è: una dottrina di chiusura e sospetto che sta svuotando l’America della sua vera forza, cioè l’apertura, l’accoglienza, la capacità di attrarre e trattenere le menti migliori.
Se Harvard non è più libera di insegnare a chi vuole, non è solo l’università a perdere. È l’America stessa a cessare di essere un faro. E a quel punto, non ci saranno abbastanza aerei privati, donati o comprati, per sfuggire all’oscurità che si è scelta.