Trump e il disordine permanente

Trump smentisce i suoi stessi fedelissimi, militarizza le strade, scredita le istituzioni: una strategia che logora la democrazia

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C’è una costante nel modo in cui Donald Trump governa: l’imprevedibilità. Ma quando l’imprevedibilità diventa incoerenza strutturale, e questa incoerenza si applica tanto al teatro di guerra globale quanto ai diritti civili sul suolo americano, allora non siamo più nel campo della strategia. Siamo nel dominio dell’arbitrio, del culto della personalità e della gestione del potere come un reality show distopico.

Il caso dell’Iran è emblematico. Trump, tornando in anticipo dal G7, ha dichiarato che Teheran è “molto vicina” a possedere un’arma nucleare. Peccato che appena tre mesi fa Tulsi Gabbard, da lui nominata direttrice dell’intelligence nazionale e una delle figure più leali al suo entourage, avesse detto l’opposto al Congresso: l’Iran non sta costruendo un’arma nucleare. Una valutazione della comunità di intelligence, non di una ONG pacifista.

La smentita brutale di Trump, “Non mi interessa cosa ha detto”, non è solo una frattura con una sua fedelissima. È il sintomo di un metodo di governo pericoloso: ignorare i dati, calpestare la professionalità, sostituire la realtà con la percezione. Che sia Teheran o Minneapolis, la logica non cambia: tutto ruota intorno alla narrativa utile al momento. Il resto si demolisce, compresi gli alleati più vicini.

Nel mondo Maga, questa non è passata inosservata. Il filosofo russo Alexander Dugin, un tempo ispiratore dell’ultranazionalismo trumpiano, ha espresso il suo sgomento: “Trump sta perdendo gli amici più leali e dando potere ai suoi peggior nemici”. Quando perfino un ideologo del putinismo inizia a parlare di un Trump “rapito dal Deep State”, siamo alla farsa tragica.

Ma se i giochi di specchi geopolitici fanno rumore, non meno inquietanti sono le scelte interne. Le deportazioni di massa di migranti, un’ossessione del presidente, sono tornate al centro dell’agenda con una violenza istituzionale che non si vedeva da decenni. Retate a tappeto, centri di detenzione sovraffollati, e un linguaggio sempre più disumanizzante. Il tutto condito da una retorica di “ripulitura” del Paese che evoca scenari più da regime autoritario che da democrazia costituzionale.

Non è un caso isolato. Gli arresti recenti di figure politiche locali, il sindaco di Newark, il senatore del Minnesota, il vicesindaco di New York, mostrano un’altra faccia della guerra interna: quella contro i poteri locali che non si piegano alla linea trumpiana. Indagini lampo, esposizione mediatica mirata, sospetti che sembrano più motivati da vendetta politica che da giustizia. In uno Stato di diritto, le accuse si giudicano in tribunale. Nella repubblica trumpiana, si condannano prima sui social.

Trump governa come un uomo che non ha mai smesso di fare campagna elettorale: slogan al posto delle strategie, provocazioni al posto del dialogo, potere personale al posto delle istituzioni. Ma il prezzo di questa gestione muscolare e narcisista degli Stati Uniti è alto: il rischio concreto è un isolamento internazionale crescente, una polarizzazione interna ingestibile e il crollo definitivo di ogni mediazione democratica.

Gli Stati Uniti meritano molto di più di un leader che semina tempeste per raccogliere applausi.