A due mesi dall’entrata in vigore della cosiddetta tregua a Gaza, il bilancio è già una condanna storica, centinaia di civili palestinesi uccisi, quasi cinquecento violazioni documentate del cessate il fuoco, un territorio che continua a vivere sotto bombardamenti, assedi e fame. Chiamarla “tregua” è ormai un esercizio di propaganda lessicale, utile più alle cancellerie occidentali che alla popolazione di Gaza.
I numeri che smentiscono la propaganda
Secondo le autorità locali Israele avrebbe violato l’accordo almeno 497 volte negli ultimi 44 giorni. Non si tratta di incidenti isolati o di risposte sporadiche, ma di una continuità operativa che svuota l’accordo di ogni significato politico e giuridico. In questo periodo, oltre 300 civili, in gran parte donne, bambini e anziani, sono stati uccisi. Numeri incompatibili con qualsiasi definizione onesta di cessate il fuoco.
La retorica della “difesa” e la realtà sul terreno
La narrazione ufficiale israeliana parla di “risposte difensive” e di “combattenti eliminati”. Ma sul terreno restano quartieri colpiti, famiglie sepolte sotto le macerie, corpi restituiti mutilati e difficili perfino da identificare per mancanza di laboratori e attrezzature forensi. È un dettaglio agghiacciante, non solo si uccide, ma si nega persino il diritto al nome, alla verità, alla sepoltura.
Il fronte della Cisgiordania: violenza quotidiana ignorata
La presunta tregua a Gaza non ha portato sollievo neanche ai palestinesi della Cisgiordania, dove crescono violenza e insediamenti. La brutalità dei coloni israeliani, spesso armati, sempre impuniti, si è intensificata, con centinaia di attacchi documentati contro villaggi, famiglie e proprietà palestinesi. L’attivista palestinese Awdah Hathaleen, figura simbolica del movimento nonviolento, è stato ucciso da un colono nella regione di Hebron in un episodio che ha suscitato condanne internazionali e messo in luce la complicità, tacita o attiva, delle autorità israeliane nel permettere tali violenze.
La linea gialla e il fatto compiuto
La cosiddetta “linea gialla”, confine non segnato ma imposto, è diventata l’ennesimo strumento di controllo territoriale. Israele continua a sparare su chi si avvicina, mentre avanza oltre i limiti concordati, modificando unilateralmente l’assetto sul campo. È la logica del fatto compiuto, applicata sotto copertura diplomatica.
Il silenzio complice dell’Occidente
In questo quadro, il ruolo dell’Occidente è tutt’altro che marginale. Stati Uniti ed Europa hanno mediato, garantito, benedetto l’accordo. Ma davanti alla sua sistematica violazione, hanno scelto ancora una volta il silenzio, quando non la giustificazione preventiva. La tregua sembra pensata più per placare l’opinione pubblica occidentale che per fermare davvero la carneficina. Una pausa cosmetica, utile a ripulire l’immagine internazionale di Israele senza intaccare la sostanza dell’operazione militare.
Un’impunità che dura da anni
Non è una novità. Da anni, la comunità internazionale reagisce alla distruzione di Gaza con appelli, “preoccupazioni” e richiami astratti al diritto internazionale, mai accompagnati da sanzioni, pressioni reali o conseguenze politiche. Israele sa di poter violare accordi, risoluzioni ONU e protocolli umanitari senza pagare alcun prezzo. Questa impunità strutturale è parte integrante del conflitto.
Oltre la mistificazione
Definire tutto questo una “guerra contro Hamas” è una mistificazione sempre meno credibile. I fatti raccontano altro, un’intera popolazione sottoposta a punizione collettiva, un territorio trasformato in laboratorio di forza militare, una tregua usata come strumento tattico, non come impegno vincolante.
La verità che resta
La verità, per quanto scomoda, è semplice, la tregua a Gaza è finta. Serve a chi bombarda per continuare a farlo senza scandalo, e a chi osserva da lontano per non assumersi responsabilità. Finché il mondo occidentale continuerà a voltare lo sguardo, chiamando “difesa” ciò che è distruzione sistematica, Gaza resterà il luogo dove anche le parole, pace, tregua, diritto, vengono uccise ogni giorno.
