La Procura di Monza, coordinata dal pubblico ministero Alessio Rinaldi, ha chiuso le indagini nei confronti delle attiviste e scrittrici Carlotta Vagnoli, Valeria Fonte e della giornalista Benedetta Sabene. L’inchiesta contesta alle tre una serie di messaggi e iniziative sui social. Partita da denunce presentate da un giovane e da una testimone. Secondo gli inquirenti, avrebbero configurato atti persecutori e diffamazione nei confronti della presunta vittima.
Cos’è contestato alle attiviste
Secondo l’accusa la vicenda sarebbe iniziata dopo una relazione sentimentale e la sua successiva fine; quando emerse un flirt della persona offesa con un’altra componente dello stesso gruppo, la situazione sarebbe degenerata in una campagna di esclusione e insulti online. La Procura sostiene che le tre abbiano pubblicato messaggi accusatori e post che avrebbero creato una «gogna digitale». Questo ha provocato gravi conseguenze per il ragazzo indicato come abuser, tanto da spingerlo a tentare un gesto estremo. Almeno secondo quanto emerso nella fase istruttoria.
Per le tre attiviste: perquisizioni e sequestro dei dispositivi
Le due attiviste più in vista, Vagnoli e Fonte, avevano denunciato a gennaio di essere state sottoposte a perquisizioni domiciliari e al sequestro di telefoni e computer. Un passaggio processuale già raccontato pubblicamente dalle interessate che avevano condiviso la notizia sui loro profili social. L’episodio è stato riportato anche dalla stampa locale e nazionale nell’ambito dell’inchiesta.
Denunce e testimonianze
Oltre alla denuncia della presunta vittima, una testimone importante nella vicenda è la social media strategist Serena Mazzini (nota online come Serena Doe), che si è costituita parte lesa per comportamenti che le erano stati rivolti dalle stesse due attiviste. Queste testimonianze sono parte degli atti che hanno portato alla chiusura delle indagini.
Posizioni delle attiviste indagate
Le tre interessate hanno respinto le accuse e dichiarato di aver agito «a tutela delle vittime di violenza maschile» e nel pieno rispetto della legge. Con la chiusura delle indagini hanno ora la possibilità di presentare memorie difensive o di chiedere di essere interrogate prima che il pm decida se chiedere il rinvio a giudizio.
Implicazioni legali e sociali
Il caso porta all’attenzione interrogativi complessi: dove sta il confine tra denuncia pubblica di presunti abusi (call-out) e comportamento persecutorio o diffamatorio punibile dalla legge? La normativa sugli atti persecutori (stalking) e sulla diffamazione può infatti essere applicata anche a condotte compiute online. I tribunali stanno progressivamente adattando i parametri interpretativi al contesto digitale. Potranno valutare elementi come la reiterazione, la gravità delle espressioni e l’effetto sulla vita della presunta vittima.
Riflessioni etiche e sociali
Il caso solleva questioni morali e pratiche: la giustizia sociale e la mobilitazione collettiva sui social sono strumenti potenti per smascherare comportamenti lesivi, ma quando l’esposizione pubblica travalica i limiti del rispetto della persona rischia di provocare danni reali. È legittimo chiedersi — come emerge anche dal dibattito pubblico attorno alla vicenda — se la rapidità e l’intensità delle campagne online stiano attenuando la capacità collettiva di valutare conseguenze e responsabilità individuali.
Appello al dibattito
La chiusura delle indagini non equivale a una condanna: è una fase procedurale che porta ora le parti a confrontarsi davanti al magistrato o, eventualmente, in aula. Qualunque sia l’esito processuale, il caso invita a un dibattito pubblico più articolato su strumenti, modalità e limiti della denuncia online, e su come bilanciare tutela delle vittime e tutela dei diritti fondamentali di chi viene accusato. È un momento utile per riflettere su responsabilità individuali e collettive in un ambiente — la rete — dove le conseguenze possono essere rapide e drammatiche.
