Tim Roth e il dolore che resta: il figlio, il film, il vuoto

Durante le riprese del film Poison, l’attore inglese ha vissuto un intenso confronto tra la finzione scenica e la realtà della malattia di suo figlio Cormac, poi scomparso. Un racconto toccante su dolore, speranza e il potere salvifico della recitazione.

Tim Roth

Durante le riprese in un vero cimitero in Lussemburgo, dove prende vita il film Poison, Tim Roth stava affrontando un periodo delicatissimo: la malattia del figlio Cormac. Nella pellicola, tratta da un testo teatrale dell’olandese Lot Vekemans, Roth interpreta un padre che, dopo la morte del figlio, si ritrova con l’ex moglie in un intenso faccia a faccia emotivo.

Ma la finzione si sovrapponeva alla realtà. «Giravamo in un cimitero, sì, ma io cercavo di continuare ad avere speranza. In quel momento, Cormac era ancora con noi», ha raccontato l’attore, sottolineando come quel ruolo, sebbene doloroso, gli abbia permesso di entrare in contatto con emozioni reali e profondissime.

Tim Roth: un dolore personale che diventa universale

Il film si presenta come un confronto viscerale tra due genitori incapaci di condividere il lutto, ciascuno chiuso nel proprio modo di soffrire. Una dinamica che Roth ha riconosciuto anche nella sua esperienza personale: «Ognuno elabora la perdita a modo suo. È come un’impronta digitale: unica, irripetibile. E va rispettata».

Accanto a lui, la regista Désirée Nosbusch, al suo esordio alla regia, era consapevole della situazione. Anche lei, anni prima, aveva vissuto la paura per la salute del proprio figlio, a cui era stato diagnosticato il diabete. Quando seppe della scomparsa di Cormac, si chiese se quel film potesse essere stato, in qualche modo, un brutto presagio. Roth però la rassicurò: «Non ho alcun rimpianto per averlo fatto. In un certo senso, mi ha aiutato a prepararmi».

Il ricordo di Cormac: una forza che continua a ispirare

Dopo la perdita di Cormac, scomparso a soli 25 anni per un cancro, Roth e la sua famiglia – la moglie Nikki Butler e l’altro figlio Hunter – hanno condiviso un messaggio pieno d’amore e verità. Hanno descritto il dolore come un’onda che ritorna e travolge, e ricordato Cormac come «una palla di energia selvaggia ed elettrica».

In quel messaggio hanno citato una delle sue frasi preferite: «Fai in modo di fare le cose che ami». E forse è proprio questa eredità spirituale che continua a guidare Roth.

La recitazione per Tim Roth come rifugio

«Recitare è qualcosa che amo sempre di più», confessa Roth oggi. Un sentimento non sempre lineare: «Una volta avevo detto che era una professione infernale, da non augurare a nessuno… ma probabilmente avevo solo avuto una giornata storta».

L’attore, oggi 64enne, continua a distinguere tra i progetti che servono a “pagare l’affitto” e quelli che nutrono l’anima. Anche i fallimenti, spiega, hanno il loro valore: «Spesso sono proprio quelli a insegnarti di più. Anche quando il film è brutto, devi dare il meglio. E a volte, sono le esperienze più belle».

Dagli scaffali del Tesco a Poison: il lungo cammino di un attore autentico

Prima di diventare uno dei volti più riconoscibili del cinema britannico, Roth ha fatto ogni tipo di lavoro: riempiva scaffali al Tesco, smistava lettere a Natale, cercava di vendere pubblicità al telefono. «Facevo pena», ammette con autoironia.

La svolta arrivò con il ruolo del giovane skinhead Trevor in Made in Britain (1982), ma l’origine della sua passione risale a molto prima, a un musical scolastico su Dracula, “una pessima imitazione del Rocky Horror”, che però lo folgorò.

Oggi, tra alti e bassi, Roth continua a credere nel potere del cinema. Un potere che può anche aiutare a sopravvivere al dolore più indicibile.