
La politica italiana ha una sua straordinaria costanza: quando i ministri non funzionano, non si cambiano i ministri. Si cambia chi li racconta. È una vecchia regola del palazzo, ma Giorgia Meloni sembra averla trasformata in metodo di governo. Altro che rimpasto: qui si rimpasta l’ufficio stampa.
L’ultimo ingrediente della ricetta si chiama Gian Marco Chiocci, direttore del Tg1, pronto a lasciare il notiziario della Rai per diventare la nuova voce della premier. Un giornalista esperto, abituato a stare nel cuore del potere, con un curriculum che parla da sé: dagli scoop sul caso Fini e la casa di Montecarlo, fino alla celebre intervista dell’agosto 2024 in cui l’allora ministro della Cultura Gennaro Sangiuliano, preso dal fervore estivo, ammise in diretta televisiva più di quanto fosse prudente sul cosiddetto “caso Boccia”. Un colpo giornalistico che resta scolpito nella memoria di Viale Mazzini, e forse anche nei rimpianti dello stesso ministro.
Che Chiocci piaccia alla premier non stupisce. È considerato uomo di fiducia, anzi quasi di famiglia, e la fiducia, si sa, è la valuta più rara nella giungla romana. La notizia del suo arrivo a Palazzo Chigi ha un valore politico preciso: preparare la lunga campagna elettorale verso il 2027 con un megafono che funzioni meglio dei microfoni della stampa “non amica”. Meloni ha capito che non potendo vantare un governo di fuoriclasse, serve almeno un ufficio stampa che sappia trasformare i mediani in fantasisti e i gregari in numeri dieci.
In fondo, i ministri di questo governo hanno dato prova di eccellere in tutto fuorché nel governare: c’è chi sarebbe perfetto come animatore di cabina elettorale, chi come ospite fisso nei salotti tv e chi come maestro nell’arte sopraffina di parlare senza contenuti. Un tempo esecutivi così franavano sotto il peso delle proprie gaffe; oggi, con il maquillage comunicativo giusto, possono perfino sembrare granitici.
E allora non stupisce che mentre l’opposizione discute di mozioni, commissioni e vigilanza Rai, a Palazzo Chigi si lavori al nuovo dream team della propaganda. Chiocci sarà affiancato da Fabrizio Alfano, già portavoce di Fini: un tandem che promette di presidiare ogni riga di giornale, ogni titolo di tg, ogni scroll sui social. Non è un caso che lo scoop sul loro arrivo sia stato definito da Il Foglio “una trattativa chiusa”: in politica, come nel calcio, serve un mercato di rinforzo a metà stagione.
Il problema, semmai, è che il campo resta lo stesso. Un governo con ministri mediocri non diventa improvvisamente un governo di grandi visioni perché cambia il portavoce. Puoi truccare le statistiche, scegliere l’inquadratura giusta, perfino oscurare le curve degli ascolti, ma la realtà, alla lunga, resta più testarda della narrazione.
Intanto, la Rai paga il prezzo. Il Tg1 di Chiocci, accusato di “TeleMelonismo” persino dai sindacati interni, ha appena subito lo smacco del sorpasso da parte del Tg5. Un segnale che il pubblico, anche quando si finge distratto, sa distinguere l’informazione dall’ufficio stampa. E se i telespettatori voltano canale, non è certo per colpa dei conduttori.
Resta quindi la domanda di fondo: Meloni vuole un portavoce per comunicare meglio con gli italiani o per proteggersi meglio dai suoi ministri? Perché un governo che passa più tempo a cambiare i narratori che i protagonisti rischia di diventare una serie tv in cui il cast resta scadente, mentre il trailer migliora di stagione in stagione.
Ma, si sa, in Italia il marketing conta più della sceneggiatura. E se i prossimi tre anni di legislatura si giocano sul campo della comunicazione, allora il nuovo rimpasto silenzioso, non dei ministri ma dei megafoni, segna già un punto a favore di Palazzo Chigi. Con buona pace di chi ancora crede che a governare debbano essere i contenuti, e non solo i comunicati.