
L’eco dell’Alta Felicità si propaga tra le montagne della Val di Susa, come ogni estate da quando il festival No Tav si è radicato nel calendario della protesta. Famiglie, ragazzi, artisti: un clima conviviale che sa di comunità e lotta. Ma sabato 26 luglio 2025, sotto il sole cocente di San Didero, tutto è cambiato. Un gruppo di manifestanti ha abbandonato il corteo pacifico, si è diretto verso il cantiere della nuova linea ferroviaria Torino‑Lione e lo ha assaltato. Recinzioni bruciate, bombe carta, caselli dell’autostrada A32 bloccati: è caos.

Il cantiere Tav si è trasformato in campo di battaglia. Le immagini sui notiziari: volti coperti, mezzi incendiati, forze dell’ordine in assetto antisommossa. Non è la prima volta, ma ogni volta è più dura. Il Viminale parla di “guerriglia urbana”, il ministro Piantedosi tuona: “Lo Stato non arretra”. Il vice presidente del Consiglio Salvini vola sul posto. La premier Meloni, da Roma, afferma: “Non accetteremo che una minoranza violenta tenga in ostaggio l’Italia”.
In Piemonte, Fratelli d’Italia, tramite la consigliera regionale Alessandra Binzoni, definisce le azioni “non dissenso democratico ma violenza criminale”, e attacca duramente le parole del segretario regionale di Rifondazione Comunista, Ezio Deambrogio, che aveva espresso “solidarietà ai compagni” accusati: “La Valsusa è da troppo tempo ostaggio di estremisti i cui atti violenti non sono minimamente accettabili. Rimaniamo basiti dalle parole di Deambrogio. La Tav andrà avanti, porterà sviluppo e giustizia ambientale”, afferma Binzoni.

Ma da dove nasce questa frattura così profonda? È una storia lunga trent’anni. La Tav Torino‑Lione è il più discusso progetto ferroviario della storia repubblicana. Pensata negli anni ’90, inserita nei trattati italo-francesi del 1996 e del 2001, avrebbe dovuto collegare le due città in meno di due ore, permettendo al traffico merci e passeggeri di correre sotto le Alpi. Un progetto ambizioso, parte del corridoio europeo TEN‑T Reno‑Alpi, con una galleria lunga 57,5 km tra Saint-Jean-de-Maurienne e Susa. Fin dall’inizio, però, in Val di Susa, si leva una voce contraria. I No Tav – contadini, studenti, amministratori locali, famiglie – denunciano costi astronomici, devastazioni ambientali, rischi sanitari e inutilità strategica. Nasce così una resistenza popolare che negli anni assume i contorni di un’identità collettiva. Un popolo, dicono, contro il “mostro”.

Un’opera trainante o una ferita nel cuore della valle? Da una parte, la Tav viene raccontata come il simbolo di un’Italia moderna, connessa, efficiente. I sostenitori parlano di un’opera strategica: ridurrà l’inquinamento stradale, porterà investimenti e lavoro, proietterà l’Italia nel cuore della logistica europea. “Non si può restare fermi mentre il mondo corre”, dicono i promotori. L’alta velocità è il futuro, e la Valsusa dovrebbe essere orgogliosa di ospitarlo. Dall’altra parte, però, la valle racconta un’altra verità. Chi vive qui parla di un progetto calato dall’alto, che devasta boschi e falde acquifere, spacca montagne contenenti amianto e uranio, e violenta il territorio in nome di un progresso che non serve. I dati sul traffico merci mostrano un calo costante: la linea storica non è satura. Perché costruire una nuova opera da oltre 20 miliardi di euro, quando la vecchia è vuota? La Tav, per i No Tav, è il simbolo dell’arroganza politica e del tradimento democratico.
Passeggiare oggi tra i cantieri di San Didero è come attraversare una cicatrice viva. Le reti metalliche sono ferite nel verde, i container mimetizzati tra pini e rocce raccontano un conflitto che dura da decenni. Per i favorevoli, l’opera è un seme che porterà futuro. Per i contrari, è un veleno silenzioso che ha già rubato troppo. Il conflitto non è solo tecnico o ambientale: è culturale, sociale, emotivo.
“Non siamo contro il progresso, siamo contro lo spreco”, gridano i manifestanti. “Non si può fermare la modernità”, rispondono i politici. E mentre la politica nazionale stringe i ranghi – Fratelli d’Italia, Lega, PD, Forza Italia favorevoli all’opera – solo piccole formazioni di sinistra radicale continuano a sostenere il movimento. Ma in Valsusa, la frattura resta viva. Più che un dibattito, sembra una frattura morale: due verità che non si parlano.
E domani? La Tav andrà avanti. Lo ha detto chiaramente anche il ministro Salvini nel suo blitz a Chiomonte: “L’opera si farà, e più in fretta possibile. Lo dobbiamo all’Italia e all’Europa”. I lavori sul tunnel di base sono in corso, mentre si discute già di rafforzare il piano sicurezza. Alcuni propongono un nuovo decreto legge per proteggere i cantieri con misure straordinarie, simili a quelle usate per il G7.
Intanto, il movimento No Tav annuncia nuove mobilitazioni. “Finché ci sarà un cantiere, ci sarà una resistenza”, dicono. Non è solo un treno. È una visione del mondo. E la Val di Susa resta, ancora una volta, il luogo in cui il Paese si specchia e si divide.