Extraprofitti, extra favori: la tassa sulle banche diventa uno sconto di lusso

Il governo la chiama manovra equa, ma gli istituti potranno scegliere se pagare e con un’aliquota da saldo amico.

Era stata pensata nel 2023 come un contributo straordinario sugli extraprofitti bancari, nati dall’aumento vertiginoso dei tassi d’interesse che aveva gonfiato i margini degli istituti oltre la media degli anni precedenti.

Ora quella tassa torna nella manovra 2026, ma in una versione molto più “morbida”, presentata come strumento per rimpinguare le casse dello Stato dopo mesi di vincoli di bilancio.

Dietro la veste di misura “equa” e “temporanea”, però, si nascondono molti dubbi e criticità: dalla volontarietà del contributo al get­tito ridotto, fino alla mancanza di un vero prelievo sugli extraprofitti, come hanno ammesso gli stessi esponenti della maggioranza.

Dal 40% al 27,5%: la metamorfosi della tassa

Doveva essere una stangata, è diventata una carezza. Nel 2023 il decreto prevedeva un’aliquota del 40% sui margini d’interesse straordinari, cioè sugli utili eccedenti la media 2021-2022. Una misura annunciata come “una tantum” di giustizia fiscale.

Oggi, nella manovra 2026, quella tassa si trasforma in una imposta sostitutiva volontaria del 27,5%, legata al cosiddetto “affrancamento delle riserve” – cioè la possibilità per le banche di pagare una tassa ridotta per “liberare” gli utili accantonati negli anni precedenti, rendendoli finalmente utilizzabili o distribuibili come dividendi.

In sostanza, le banche possono scegliere se versare questa imposta per sbloccare i propri extraprofitti.
Nessun obbligo, nessuna automatica redistribuzione: se vogliono, pagano; se no, tengono i miliardi fermi nei conti.

 Il risultato è una tassa che, più che colpire gli extraprofitti, li legittima con un piccolo pedaggio.

Il trucco dell’affrancamento: paghi meno e sei pure libero

Tecnicamente si parla di “affrancamento delle riserve”, ma in pratica è un condono elegante.
Le banche che hanno accantonato utili record durante gli anni di tassi alti possono “liberare” quelle somme pagando una tantum del 27,5%, un’imposta sostitutiva che prende il posto delle normali tasse sugli utili.

Una tassa facoltativa, non punitiva, che consente poi di usare quelle risorse per distribuire dividendi o rafforzare il capitale.

Secondo la Relazione tecnica alla Legge di Bilancio 2026, il gettito stimato per questa misura di affrancamento ammonterebbe a circa 1,65 miliardi di euro nel 2026. Una cifra modesta rispetto ai 4 miliardi inizialmente ipotizzati dal governo per il contributo del comparto bancario e assicurativo, soprattutto considerando che l’adesione è volontaria e quindi incerta.

Il punto debole è proprio la volontarietà: non essendoci obbligo, nessuno garantisce che gli istituti si affretteranno a pagare anche con lo “sconto”.

E lo Stato, nel frattempo, incassa solo se qualcuno decide di farlo.

L’aliquota al 5%: l’affare d’oro dei “dividendi controllati”

Come se non bastasse, l’aliquota del 27,5% può scendere fino al 5% effettivo in presenza di comportamenti “virtuosi”: cioè se la banca decide di distribuire i dividendi in modo graduale o di reinvestire parte delle riserve nel capitale.

Si parla in questi casi di “dividendi controllati”, perché le distribuzioni devono avvenire sotto la supervisione della Banca d’Italia o della BCE (Banca Centrale Europea), e in modo tale da non ridurre la solidità patrimoniale.

In cambio della prudenza, il governo concede deduzioni e compensazioni fiscali che riducono drasticamente il peso dell’imposta. Non proprio il concetto classico di “contributo di solidarietà”.

Forza Italia, in particolare, ha voluto chiarire che “non ci sarà tassa sugli extra profitti delle banche”, nel senso tradizionale: nessuna imposta forzosa, nessuna redistribuzione automatica, ma solo un’opportunità di affrancamento “amichevole”.

Un modo elegante per dire che non è una tassa, ma una facoltà fiscale con premio incorporato.

La carezza del potere e l’elemosina dei profitti

La premier Giorgia Meloni, nelle ultime dichiarazioni, ha rivendicato i meriti del governo per i buoni risultati del sistema bancario, invitando gli istituti a “fare la loro parte” e contribuire con questa elemosina di Stato. Un appello più che una imposizione, che arriva proprio mentre le banche continuano a beneficiare di margini record grazie ai tassi alti decisi dalla BCE – non certo da Palazzo Chigi.

In un Paese dove ogni euro di deficit è sottoposto al microscopio di Bruxelles, il Governo italiano rinuncia a miliardi potenziali che potrebbero rappresentare un’opportunità di investimento e di coesione sociale.

Una richiesta flebile, quasi sussurrata, che suona come un ringraziamento più che un prelievo.
E così la “tassa sugli extraprofitti” diventa l’ennesima dimostrazione di un principio tutto italiano: chi può, sceglie quanto contribuire; chi non può, paga per tutti.