Swatch inciampa sugli occhi della Cina

Offendere un popolo da 1,4 miliardi di persone è un errore che costa caro: la globalizzazione non perdona superficialità culturali

Swatch

C’è un errore che nel mondo globale non ti puoi permettere: urtare la sensibilità collettiva di un intero popolo. Swatch, colosso dell’orologeria svizzera, lo ha appena imparato a proprie spese con una campagna pubblicitaria che utilizzava un gesto universalmente riconosciuto come offensivo verso gli asiatici: quello degli “occhi a mandorla” tirati con le dita. Una leggerezza? Una provocazione mal calcolata? Qualunque fosse l’intento, l’effetto è stato devastante: la Cina ha reagito con rabbia, i social hanno amplificato lo sdegno e il marchio ha dovuto ritirare in fretta la campagna a livello mondiale, correndo ai ripari con scuse in più lingue.

Il caso Swatch non è un episodio isolato. Negli ultimi anni Pechino e i consumatori cinesi hanno mostrato una notevole capacità di mobilitazione quando si tratta di difendere la propria dignità nazionale e culturale. I boicottaggi contro H&M, Nike, Adidas, Uniqlo e soprattutto Dolce & Gabbana sono la dimostrazione che la Cina non perdona facilmente chi la offende, volutamente o per ignoranza. In un’epoca in cui l’opinione pubblica digitale decide la sorte dei marchi internazionali, il danno d’immagine è immediato, e spesso permanente.

Per Swatch la questione è particolarmente delicata. Il gruppo trae dal mercato asiatico una fetta fondamentale del suo fatturato, sebbene in calo: dal 33% al 24% in soli diciotto mesi. Offendere i consumatori cinesi significa minare il proprio futuro economico. Non stupisce dunque che le scuse siano arrivate in fretta, ma il sospetto dei cittadini cinesi è che non si tratti di un sincero mea culpa, bensì della solita mossa difensiva per tutelare i profitti. La frase di un utente su Weibo riassume la percezione diffusa: “Puoi scusarti, ma io non ti perdonerò”.

Eppure il punto centrale non riguarda solo il marketing. Riguarda la politica. Nel contesto attuale, la sensibilità culturale è un terreno di scontro geopolitico. La Cina, potenza emergente, sfrutta ogni occasione per ribadire che non accetta di essere oggetto di scherno o discriminazione. Il nazionalismo dei consumatori si traduce in pressione economica sulle multinazionali, e Pechino non deve nemmeno intervenire direttamente: è la società civile, mobilitata online, a erigere il tribunale del popolo.

Le aziende occidentali dovrebbero ormai sapere che in Cina la pubblicità non è mai neutrale. Ogni slogan, ogni immagine, ogni gesto può trasformarsi in una miccia politica. Questo non significa che ci si debba piegare acriticamente a ogni dettame del Partito-Stato, ma implica un’assunzione di responsabilità culturale. Conoscere il pubblico a cui ci si rivolge è la prima regola della comunicazione. Nel caso di Swatch, la superficialità è stata doppia: non solo si è scelto un gesto caricaturale, ma lo si è fatto in un Paese dove l’identità culturale è un nervo scoperto e dove l’orgoglio nazionale è al centro della politica di potenza.

La vicenda, infine, ci offre una lezione più ampia. Nel mondo interconnesso, l’errore pubblicitario non resta confinato a un settore di mercato: diventa caso diplomatico, simbolo politico, terreno di scontro ideologico. Un brand che “sbaglia” non deve più affrontare solo i critici di settore, ma un intero popolo che si percepisce insultato. È questo il punto: quando offendi una comunità da 1,4 miliardi di persone, non basta una rettifica su Instagram per chiudere la partita.

Swatch ha voluto correre ai ripari, ma ormai il danno è fatto. La Cina perdona raramente, soprattutto quando ritiene che il rispetto verso la propria cultura sia stato calpestato. E qui non è più questione di marketing: è questione di politica.