
Ancora una volta, la Turchia si ritrova sull’orlo del baratro democratico. L’arresto di Ekrem Imamoglu, sindaco di Istanbul e principale rivale del presidente Recep Tayyip Erdogan, non è solo un attacco politico: è un colpo diretto al cuore di una democrazia già ferita. In un Paese dove la libertà d’espressione è continuamente messa sotto scacco, l’arresto di un leader eletto dal popolo rappresenta la cartina di tornasole di un regime che ormai non ha più paura di mostrarsi per ciò che è: autoritario, illiberale, repressivo.
Un’opposizione messa a tacere
Ekrem Imamoglu, uomo del CHP e simbolo della rinascita democratica nelle grandi città turche, è stato arrestato con accuse tanto gravi quanto sospette: corruzione e presunto sostegno a un gruppo terroristico. In un Paese in cui ogni voce contraria al governo viene sistematicamente demonizzata, questi capi d’accusa sanno di farsa giudiziaria. Non è un caso se proprio Imamoglu era indicato come il più probabile sfidante di Erdogan alle imminenti elezioni presidenziali. E secondo alcuni sondaggi, era addirittura in vantaggio.
La piazza risponde, lo Stato reprime
Le reazioni non si sono fatte attendere. Da mercoledì, decine di migliaia di cittadini sono scesi in strada a Istanbul, Ankara e in molte altre città per difendere la loro democrazia e chiedere la liberazione di Imamoglu. Manifestazioni per lo più pacifiche, simbolo di un popolo che, nonostante la repressione, non ha perso la voce. Ma la risposta del governo è stata brutale: 343 arresti in una sola notte, con il Ministero degli Interni che ha parlato di “prevenzione di disordini” e ha messo in guardia contro “caos e provocazioni”. Un linguaggio che richiama i regimi più oscuri della storia, dove ogni dissenso è tradotto in minaccia.
Erdogan, presidente o sultano?
Da tempo ormai Erdogan ha smesso di comportarsi da presidente eletto. Il suo è un potere sempre più personale, centralizzato, costruito sulla paura, sull’accentramento del controllo giudiziario e mediatico, sull’eliminazione sistematica degli avversari politici. L’arresto di Imamoglu non è un caso isolato: è l’ennesimo capitolo di una lunga serie di atti autoritari. Sotto la sua guida, la Turchia ha incarcerato giornalisti, sciolto associazioni civili, intimidito accademici, perseguitato curdi e oppositori. Un presidente che ha trasformato un Paese moderno e strategico in una democrazia solo di facciata.
L’Europa non può più restare a guardare
Le reazioni internazionali, in particolare da parte di alcuni politici europei, sono state di condanna. Ma non basta. La Turchia è formalmente un Paese candidato all’ingresso nell’Unione Europea. Se l’Europa vuole ancora essere il baluardo della democrazia, non può limitarsi a dichiarazioni di circostanza. Serve una presa di posizione netta, con sanzioni mirate, sospensione dei negoziati e un messaggio chiaro: chi calpesta la volontà popolare non può sedere al tavolo delle democrazie.
Un futuro da conquistare
La Turchia non è Erdogan. È anche, e soprattutto, il volto fiero dei giovani in piazza, delle donne che alzano la voce, dei cittadini che sfidano la paura. È la storia di chi non accetta che la propria volontà venga ignorata. L’arresto di Imamoglu è uno schiaffo alla democrazia, ma può essere anche la scintilla che accende una nuova consapevolezza. Perché, come dimostrano le proteste di questi giorni, il popolo turco non ha ancora smesso di lottare. E finché ci sarà qualcuno disposto a farlo, la democrazia in Turchia non sarà del tutto perduta.