
L’ennesima strage a Gaza ha il volto dei cronisti caduti oggi all’ospedale Nasser di Khan Younis. Hossam al-Masri di Reuters, Moaz Abu Taha di NBC, Mohammed Salama di Al Jazeera e Mariam Abu Daqa, freelance per diversi media internazionali: quattro giornalisti che, come tanti altri, stavano semplicemente facendo il loro lavoro. Raccontare, documentare, testimoniare. Sono stati uccisi in un duplice attacco, prima sull’ospedale e poi sui soccorsi e sui reporter accorsi. Una dinamica che lascia pochi dubbi: non una tragica fatalità, ma un messaggio preciso, rivolto a chi tenta di raccontare ciò che non deve essere visto.
Tajani e l’impunità di Israele
Di fronte a questa tragedia, il ministro degli Esteri Antonio Tajani ha dichiarato che “i reporter devono poter fare il loro lavoro”. Una frase che suona come un riflesso burocratico, più che come la voce di un rappresentante della Repubblica italiana. È l’ovvio travestito da dichiarazione ufficiale, un commento di circostanza che svuota di peso politico l’accaduto e lascia intatta l’assoluta impunità con cui Israele continua a colpire ospedali, civili e giornalisti. È il linguaggio di chi non vuole disturbare troppo, di chi teme di compromettere equilibri diplomatici e rapporti strategici.
Eppure, la realtà ci urla in faccia. Dal 2023 a oggi, oltre 200 giornalisti sono stati uccisi a Gaza. Una cifra che non ha paragoni nelle guerre recenti. Si tratta di civili che esercitano un diritto e un dovere universale: informare. Ogni loro morte non è soltanto una tragedia personale, ma una ferita alla democrazia globale, perché priva il mondo di uno sguardo indipendente in una delle zone più martoriate del pianeta.
62.000 palestinesi uccisi
Ma al di là della condizione della stampa, c’è il dato che continua a gridare nel silenzio delle cancellerie europee: oltre 62.000 palestinesi uccisi in meno di due anni, la stragrande maggioranza civili. Non sono più “danni collaterali”, non sono più numeri che si possono archiviare in un bollettino di guerra. Sono la sistematica distruzione di un popolo intrappolato in una striscia di terra che è diventata un cimitero a cielo aperto.
E l’Italia? Il governo si limita a esprimere cordoglio, a richiamare il diritto dei giornalisti a fare il proprio mestiere, a ribadire la “necessità di proteggere i civili”. Parole che non costano nulla. Non un gesto concreto di pressione diplomatica su Netanyahu, non una presa di distanza politica, non un atto di coraggio capace di dire chiaramente che il livello di devastazione raggiunto a Gaza non è più compatibile con alcuna giustificazione di autodifesa.
La storia ci chiederà conto
La storia ci chiederà conto di questo silenzio. Così come ricordiamo i governi che hanno chiuso gli occhi di fronte a massacri e genocidi, così sarà ricordato chi oggi, in Europa e in Italia, sceglie la comodità delle formule diplomatiche al posto della chiarezza morale.
Difendere i giornalisti non significa semplicemente riconoscere il loro diritto a lavorare. Significa difendere la verità e il diritto dei popoli a essere informati. Significa impedire che la guerra cancelli non solo vite, ma anche la memoria di quelle vite. Tajani e l’intero esecutivo dovrebbero comprenderlo e agire di conseguenza.
Non basta dire che i reporter devono fare il loro lavoro. Bisogna avere il coraggio di dire che chi li uccide commette un crimine di guerra. Bisogna smettere di trattare Israele come un partner intoccabile, mentre le sue bombe cancellano ospedali e scuole, donne e bambini, giornalisti e medici. Bisogna decidere da che parte stare: con chi cerca la verità o con chi la seppellisce sotto le macerie.