
“Ero un reso”… Così Douglas Dall’Asta definiva se stesso, con la lucidità e la disperazione di chi non ha mai smesso di cercare risposte. A nove anni venne adottato da una coppia di Piadena, nel Cremonese. Proveniva da un orfanotrofio brasiliano, dove era finito a tre anni dopo un primo abbandono. In Italia, però, trovò solo un’altra porta chiusa: dopo appena quattro giorni, i genitori adottivi decisero di non tenerlo. La macchina degli assistenti sociali lo portò via in una notte che lui descriveva come interminabile, fatta di buio, silenzi e sguardi mancati.
Douglas Dall’Asta raccontò questa esperienza in un libro scritto insieme a una giornalista. L’opera fu presentata persino alla Camera dei deputati: doveva essere il simbolo di un riscatto, la voce di chi raramente viene ascoltato. Ma quel dolore antico, mai veramente affrontato, ha continuato a lavorare dentro di lui come una lama invisibile, fino al gesto estremo.
Douglas Dall’Asta: una vita tra istituti, errori e carcere
Dopo il rifiuto da parte della famiglia adottiva, Douglas visse in diverse comunità fino alla maggiore età. Compì 18 anni senza nessuna rete reale, senza una casa, senza riferimenti. Sopravvivere divenne un’impresa quotidiana. Iniziò a rubare, a usare sostanze. Finì in carcere a Modena, dove – paradossalmente – trovò uno dei pochi punti fermi della sua vita: l’avvocato Gianluca Barbiero.
Fu Barbiero a prendere a cuore la sua storia, avviando una battaglia legale affinché Douglas Dall’Asta ottenesse giustizia e un risarcimento per quanto subito. Una battaglia estenuante, ostacolata dalla lentezza della burocrazia e dall’inerzia di un sistema più incline a proteggere gli adulti che ad ascoltare i bambini.
L’ultimo gesto e l’unico affetto rimasto
La morte di Douglas, avvenuta nel suo appartamento a Cremona, è stata preceduta da un messaggio inviato a un’amica. Le chiedeva di occuparsi del suo cane Jack, un rottweiler che considerava la sua unica famiglia. È in quel dettaglio che si racchiude tutta la sua solitudine, tutta la sete d’amore che nessun uomo, nessuna istituzione, nessun sistema era riuscito a colmare.
Una denuncia politica e sociale che non può restare inascoltata
La sua morte ha scosso chi, in questi anni, aveva cercato di sostenerlo. La deputata del Movimento 5 Stelle Stefania Ascari, da tempo impegnata nella causa di Douglas, ha parlato di “uno schiaffo alle coscienze”. Per lei – e per l’associazione MammeMatte che lo aveva seguito – la vicenda deve costringere a riflettere sul fallimento delle adozioni, ma anche sull’incapacità di proteggere i minori dai traumi reiterati.
L’assessore alle politiche sociali di Napoli, Luca Trapanese, ha dichiarato con fermezza che “la storia di Douglas non è un’eccezione”, ma un drammatico indicatore di un sistema che non funziona. Lui, che ha adottato da single una bambina con sindrome di Down, sa bene quanto la genitorialità adottiva richieda preparazione, consapevolezza e supporto costante.
Fallimenti adottivi: un fenomeno negato e invisibile
In Italia, non esistono statistiche ufficiali esaustive sul numero delle adozioni fallite. Eppure il fenomeno esiste, eccome. Si parla di “fallimento adottivo” quando l’adozione viene revocata o abbandonata, formalmente o informalmente. In alcuni casi i bambini vengono ricollocati tramite affidi a terzi, in altri inseriti in strutture senza un vero accompagnamento psicologico.
Molti genitori adottivi, pur passando valutazioni e colloqui, non sono pronti ad accogliere un bambino con un vissuto complesso. Idealizzano l’esperienza adottiva, attendono gratitudine e serenità, sottovalutando rabbia, paura e sfiducia che spesso accompagnano questi minori. Quando la realtà si rivela più difficile del previsto, il sostegno svanisce. Le famiglie si ritrovano sole, spesso ignorate o scaricate dalle istituzioni.
Un sistema che tutela gli adulti, ma non i bambini
La normativa italiana, pur prevedendo controlli e percorsi di formazione, non contempla sanzioni efficaci per l’abbandono ingiustificato dopo l’adozione. I genitori adottivi, anche in caso di rottura, vengono visti come “persone in difficoltà” più che come responsabili di un ulteriore trauma. I minori, invece, restano senza tutela diretta: non possono difendersi, non hanno strumenti per farsi ascoltare, non hanno voce legale autonoma.
Questo sbilanciamento è alla base di molte rotture silenziose e impunite. Il dolore non si misura in carte bollate, ma in vite segnate come quella di Douglas, che ha combattuto finché ha potuto, chiedendo semplicemente “perché”.
Cosa serve per evitare altri Douglas Dall’Asta
Le istituzioni non possono più voltarsi dall’altra parte. Serve una supervisione post-adozione reale, con sostegno psicologico obbligatorio per almeno i primi tre anni. Servono strutture di supporto alle famiglie, capaci di prevenire la rottura, e meccanismi sanzionatori concreti per chi abbandona un minore.
Ma soprattutto, serve una figura di garanzia indipendente per il bambino adottato, capace di intervenire in tempo reale, tutelare i suoi diritti, offrirgli ascolto e protezione.
La morte di Douglas non è solo una tragedia personale: è una sconfitta collettiva. E deve restare, per chi ha ancora una coscienza, un richiamo a cambiare.