
Non riesco mai a gioire per un’inchiesta giudiziaria. Non lo faccio oggi, con 74 indagati nell’indagine sull’urbanistica milanese, e non lo farò domani, qualunque sia l’esito di questa nuova bufera che coinvolge il sindaco Beppe Sala, il suo assessore Tancredi, l’architetto Stefano Boeri e altri nomi noti dell’imprenditoria e della progettazione urbana. Troppo lunga è la storia delle inchieste finite nel nulla, troppo facile la tentazione di sostituire la battaglia politica con la scorciatoia delle manette.
Eppure, qualcosa si muove sotto il cielo plumbeo di Milano, e non si può far finta di nulla. A destare attenzione non è solo l’elenco degli indagati, ma il metodo con cui si sarebbe governata la trasformazione urbanistica della città: pressioni informali, giochi di influenza, conflitti di interesse ignorati o sottovalutati, pareri ribaltati nel giro di settimane. La vicenda del “Pirellino”, grattacielo progettato da Catella e Boeri, inizialmente bocciato e poi sorprendentemente promosso, è il simbolo di una politica che ha smarrito il confine tra indirizzo e compiacenza.
E qui, al di là delle responsabilità penali che spetta ai giudici accertare con rigore e garantismo, si apre il terreno della responsabilità politica. Perché se è vero, come afferma Sala, che il sindaco non ha rapporti con la Commissione Paesaggio, allora qualcuno dovrà spiegare come sia possibile che decisioni tanto delicate siano rimaste per anni nelle mani di figure potenzialmente in conflitto di interessi. Se il rapporto tra sindaco e commissione è davvero “nullo”, come mai Boeri e Catella si rivolgevano proprio a Sala nei momenti chiave del progetto?
È legittimo che il primo cittadino si lamenti di aver appreso dai giornali di essere indagato. Ma è altrettanto legittimo domandarsi dove sia finita la trasparenza amministrativa, quando l’urbanistica diventa materia di messaggi privati, pressioni silenziose e rimozioni tardive.
Resta un fatto che merita di essere sottolineato: molti degli indagati non sono finiti in custodia cautelare grazie alla riforma garantista voluta dal Ministro Nordio. È una riforma che ha irritato la sinistra giustizialista di ieri, la stessa che oggi si scandalizza per un avviso di garanzia recapitato tardi o male. Una sinistra che manifestava contro l’abbattimento di due platani e oggi benedice il bosco di grattacieli spuntato sulla skyline di Porta Nuova. Il tempo e il potere hanno i loro paradossi.
Che questa inchiesta rappresenti l’ennesimo sconfinamento tra poteri? Forse. Ma proprio per questo potrebbe essere l’occasione, per il Partito Democratico e per l’intera sinistra, di rivedere senza pregiudizi il proprio rapporto con la giustizia e con quella cultura del sospetto che ha finito per inghiottire anche chi se ne credeva immune.
Il garantismo non è una bandiera da sventolare a giorni alterni. È una postura civile e politica, che non nega il controllo, ma rifiuta la gogna. Non confondiamo la presunzione d’innocenza con l’assoluzione preventiva. Non archiviamo il dubbio come fosse colpa. Ma non fingiamo che nulla stia accadendo. Milano, capitale morale d’Italia, merita chiarezza. E verità, senza sconti.