
C’è stato un abbraccio che ha fatto il giro del mondo: due sconosciuti, una Kiss Cam, un concerto dei Coldplay. In un attimo, il momento rubato diventa virale. I social si infiammano, i commenti si moltiplicano, i meme invadono le bacheche, e l’intera macchina mediatica si mette in moto come se avesse trovato il suo nuovo tormentone. Nessuno si chiede chi siano quelle due persone. Nessuno si chiede perché quell’abbraccio abbia mai dovuto contare così tanto. Conta solo che “fa notizia”. E il resto può aspettare.
Nel frattempo, a qualche migliaio di chilometri da quel palco illuminato e dai cori da stadio, c’è un altro abbraccio che nessuna telecamera ha immortalato. Nessuna virale emozione, nessun commento ironico. È quello tra una madre palestinese, Naima, e suo figlio di due anni, Yazan. Un bambino malnutrito, un corpicino consumato dagli stenti e dalla guerra. La madre lo tiene stretto al petto, non per amore romantico o per uno scatto da postare, ma per istinto di sopravvivenza. Perché la morte, a Gaza, è una presenza quotidiana.
L’attenzione dell’opinione pubblica, sempre più a corto di memoria, sempre più dipendente da ciò che è effimero, si lascia distrarre con una facilità inquietante. Un bacio galeotto vale più di mille immagini di bambini ridotti a scheletri, corpi avvolti in teli bianchi che nessun algoritmo fa circolare, se non in sordina. Invece di indignarsi, si scrolla. Invece di approfondire, si scherza. Gaza brucia, e noi discutiamo di corna e telecamere.
Non si nega che ci siano temi importanti anche nel clamore attorno alla “scena da concerto”: il diritto alla privacy, la spettacolarizzazione della vita privata. Ma non possiamo fingere che tutto questo debba occupare più spazio mediatico della tragedia che si consuma nella Striscia di Gaza. È un problema di priorità. E le nostre sono drammaticamente fuori asse.
Non è solo colpa dei media. È responsabilità collettiva. Perché ciò che guardiamo, ciò che commentiamo, ciò che facciamo diventare virale, dice molto di cosa siamo diventati. È più facile discutere di un tradimento da gossip che affrontare la realtà di bambini che muoiono per fame o sotto le bombe.
Il silenzio assordante dei governi internazionali si somma all’indifferenza collettiva. Gli Stati Uniti continuano a fornire armi a Israele e puniscono persino chi denuncia apertamente le violazioni dei diritti umani nei territori occupati, come la relatrice ONU Francesca Albanese. Eppure criticare un governo non è antisemitismo: è coscienza. È giustizia.
Dopo gli attacchi terroristici del 7 ottobre, Israele aveva diritto a difendersi. Ma quella che doveva essere una reazione contro Hamas si è trasformata in un massacro sistematico. Un «overkill», come direbbero gli anglosassoni. Un accanimento cieco che colpisce indiscriminatamente, in particolare i più vulnerabili: i bambini.
Gli abbracci che dovrebbero scuotere le nostre coscienze non sono quelli rubati da una Kiss Cam. Sono quelli disperati, silenziosi, tragici, di genitori che stringono figli morenti o già morti. Quelli che non finiranno su TikTok. Quelli che non faranno ridere nessuno. Ma che dovrebbero far piangere tutti.