
Berlino ha appena fissato la rotta: dal 1° gennaio 2026 il salario minimo salirà da 12,82 € a 13,90 € l’ora, per poi toccare quota 14,60 € il 1° gennaio 2027. Sarà, a quel punto, il secondo più alto dell’Unione dopo il Lussemburgo. La decisione, maturata in una commissione che riunisce sindacati e imprese, conferma una tradizione tedesca: usare la leva salariale non solo come tutela sociale ma come volano di domanda interna e produttività.
A Roma, invece, il dibattito assomiglia a un disco rotto. La maggioranza di governo, Fratelli d’Italia, Lega e Forza Italia, ha nuovamente affossato in Parlamento la proposta di un minimo legale di 9 € l’ora, giudicandolo “ideologico” e rimandando tutto a generiche promesse di contrattazione collettiva.
Il vice-premier Antonio Tajani, fedele al suo mantra, invita a puntare non sul “salario minimo” ma sul “salario ricco”, bollandone la versione per legge come “roba da Paese non democratico”.
Il risultato? Stipendi di fatto “poveri”: quattro o cinque euro all’ora in troppi contratti atipici che sfuggono ai minimi tabellari, mentre l’inflazione morde e la produttività ristagna.
Il paradosso è lampante se si pensa che Italia e Germania sono co-fondatrici dell’Unione europea, accomunate, almeno sulla carta, dai medesimi principi di dignità del lavoro inscritti nei trattati. Eppure, sul fronte salariale i percorsi divergono da anni. Berlino ha introdotto il Mindestlohn solo nel 2015, ma l’ha già ritoccato sette volte, adeguandolo al costo della vita e alla congiuntura.
Roma, al contrario, resta ancorata a una narrativa secondo cui il tessuto di contrattazione collettiva sarebbe di per sé sufficiente, chiudendo gli occhi di fronte a un mercato frantumato in oltre 900 contratti, molti dei quali firmati da sigle poco rappresentative.
La differenza non è solo simbolica. Con 14,60 € lordi l’ora, un lavoratore tedesco a tempo pieno sfiorerà i 2.500 € mensili, mentre quello italiano con un contratto “pirata” da 6 € ne porterà a casa meno della metà. È il fossato che separa l’Europa che investe sul lavoro da quella che lo considera un costo da comprimere. Non stupisce, allora, che la Germania attiri forza lavoro qualificata e che l’Italia, fanalino di coda per salari reali in area euro, continui a perdere talenti.
Il governo Meloni giustifica la sua posizione evocando la “flessibilità” e la paura di colpi alla competitività delle imprese. Ma i numeri dicono l’opposto: dove il salario minimo è stato introdotto, dalla Spagna alla stessa Germania, l’occupazione non è crollata; anzi, il potere d’acquisto ha sostenuto la crescita e ridotto la spesa pubblica per sussidi. In Italia sarebbe un vaccino contro il lavoro povero che riguarda un dipendente privato su cinque, senza impedire alla contrattazione di fissare soglie più alte.
La rincorsa tedesca verso i 14,60 € mette dunque l’Italia davanti allo specchio. Continuare a parlare di “salario ricco” senza fissare nemmeno un pavimento legale significa accettare che la ricchezza resti retorica per pochi, mentre molti restano intrappolati in paghe da fame. Se davvero vogliamo un’Europa che non lasci indietro nessuno, il momento di colmare il divario è ora. E non sarà un gioco di parole a riempire il portafoglio dei lavoratori italiani: servono scelte politiche, non slogan.