Ci sono notizie che non dovrebbero appartenere alla sfera del possibile, e invece riaffiorano da un passato che credevamo sepolto, chiedendo conto non solo alla giustizia, ma anche alla nostra coscienza collettiva. L’indagine aperta dalla Procura di Milano sui cosiddetti “turisti di guerra”, italiani che, secondo testimonianze e documenti, avrebbero pagato cifre astronomiche per sparare ai civili durante l’assedio di Sarajevo, è una di queste.
La disumanità come passatempo
Il solo fatto che un’ipotesi del genere sia plausibile è un pugno nello stomaco. Si parla di persone, ricche, armate, spesso simpatizzanti dell’estrema destra, che partivano da Trieste o altre città italiane per raggiungere la Bosnia assediata e trasformare il massacro di innocenti in una sorta di “caccia grossa”. C’è chi avrebbe pagato fino a 100.000 euro per uccidere un bambino, considerato un “bersaglio piccolo, quindi più difficile”. Donne e anziani, raccontano i testimoni, venivano “uccisi gratis”. È difficile anche solo ripetere queste parole senza provare repulsione.
Testimonianze, documenti, nomi: un quadro sempre più solido
Le rivelazioni non sono improvvisate, esistono testimonianze giurate, presunte liste con nomi e tariffe, un ex ufficiale dell’intelligence bosniaca ritenuto affidabile dagli inquirenti, il coinvolgimento del ROS, denunce formali dell’ex sindaca di Sarajevo Benjamina Karic, documentari, testimonianze dirette di soldati e osservatori internazionali. Tutto questo materiale convergerà sulla scrivania del procuratore milanese Alessandro Gobbis, che ha aperto un fascicolo per omicidio pluriaggravato.
L’ipocrisia dei “rispettabili”
C’è un dettaglio che più di tutti rivela il baratro morale di quei fatti, molti di questi uomini, perché di uomini dovremmo parlare, tornavano alle loro vite quotidiane indossando una maschera di rispettabilità. Padri di famiglia, professionisti, “appassionati di armi” che andavano in Bosnia come altri vanno in un poligono o in un safari. È un livello di disumanità difficile da afferrare, ma necessario da guardare in faccia.
Una ferita per l’Italia democratica
L’Italia non può voltarsi dall’altra parte. Se anche solo una parte di ciò che emerge fosse confermata, ci troveremmo di fronte a crimini abietti e al coinvolgimento, diretto o indiretto, del nostro Paese in una delle pagine più buie della guerra nei Balcani. Non sarebbe soltanto un fatto giudiziario, sarebbe un trauma nazionale.
Come possono italiani arrivare a tanto?
E allora la domanda sorge spontanea, come è possibile che cittadini italiani, cresciuti in un Paese democratico, abbiano potuto trasformarsi in assassini per divertimento? Ci sono responsabilità politiche, culturali, sociali da interrogare. C’è un humus ideologico che normalizza la violenza, che esalta l’arma, che disprezza l’umanità dell’altro. C’è un culto tossico della virilità armata che attraversa più segmenti della società di quanto vorremmo ammettere.
Giustizia e memoria: un dovere etico
Oggi non servono strilli né toni apocalittici. Serve invece sobrietà, rigore, fermezza morale. Le istituzioni italiane hanno il dovere di indagare senza sconti. Devono farlo non solo per rendere giustizia alle vittime di Sarajevo, ma anche per difendere la dignità del nostro Paese. Chi ha pagato per uccidere bambini non merita attenuanti. Merita un nome, un processo, una condanna.
Molti di questi crimini non sono prescritti. E questo è un bene. Le colpe più infami non dovrebbero mai conoscere oblio.
Guardare la vergogna senza distogliere lo sguardo
Ma oltre alla giustizia, serve una riflessione collettiva, l’Italia del presente deve riconoscere che nell’Italia del passato si sono annidati mostri che nessuna retorica patriottica può nascondere. E che il silenzio, nostro, europeo, internazionale, ha permesso troppo a lungo che quelle colline attorno a Sarajevo diventassero un parco giochi per predatori umani.
L’auspicio è semplice, che l’indagine sia completa, scrupolosa, inesorabile. E che, finalmente, possiamo dire di aver guardato in faccia questa vergogna senza distogliere lo sguardo. Perché certi individui possono difficilmente essere definiti persone. E perché la memoria delle vittime merita molto più del nostro shock, merita la verità.
