
Il referendum sul lavoro dell’8 e 9 giugno porta gli italiani alle urne per decidere su cinque quesiti, quattro dei quali riguardano direttamente il mondo del lavoro. Al centro del dibattito, la possibilità di restituire maggiori tutele ai lavoratori per contrastare la precarietà e garantire più stabilità nel mercato del lavoro. Ma le opinioni restano divise.
Lavoro e diritti al centro del Referendum 8-9 giugno
Chi esprime dubbi sull’efficacia dei quesiti referendari teme che un rafforzamento delle tutele possa irrigidire ulteriormente il mercato del lavoro italiano. In particolare, si teme un rallentamento nelle assunzioni, soprattutto tra i giovani, e un aumento del rischio di inattività, causato dalla possibile reticenza delle imprese ad assumere a tempo indeterminato per timore di contenziosi più costosi in caso di licenziamenti illegittimi.
Eppure, i numeri mostrano una realtà già fragile. Secondo i dati ISTAT di marzo 2025, la disoccupazione in Italia è al 6%, leggermente sopra la media UE-27 del 5,8%. Il divario si allarga per i giovani: 19% in Italia contro il 14,2% dell’UE, con Germania al 6,5% e Paesi Bassi all’8,9%. Anche il tasso di inattività (32,9%) resta ben sopra la media europea del 27,6%. Un quadro che racconta di un mercato del lavoro ancora debole e segmentato.
Diritti e tutele: un freno all’economia oppure un prerequisito per la crescita sana?
In Italia, l’approvazione del Jobs Act (D.Lgs. 23/2015) ha segnato una svolta nel sistema di tutele per il lavoro a tempo indeterminato. Per i lavoratori assunti dopo il 7 marzo 2015, il reintegro in caso di licenziamento illegittimo è previsto solo in casi estremi (nullità o manifesta insussistenza del fatto contestato), sostituito nella maggior parte delle situazioni da un’indennità economica predeterminata. Questo ha portato a un aumento della precarietà anche nei contratti “stabili”, un’elevata rotazione del personale e un indebolimento dell’incentivo per le imprese a investire in formazione e capitale umano. A distanza di dieci anni, l’Italia mostra tassi occupazionali inferiori alla media UE e un persistente dualismo tra lavoratori garantiti e precari.
L’idea secondo cui maggiori tutele ostacolerebbero l’occupazione è smentita dai dati europei. In Germania, la legge sulla protezione contro i licenziamenti (KSchG) impone che il licenziamento sia giustificato e consente il reintegro o l’indennizzo. Nei Paesi Bassi, la riforma Wet Werk en Zekerheid prevede un controllo preventivo dei licenziamenti da parte di un ente pubblico o giudiziario e tutele economiche per il lavoratore.
Nonostante queste garanzie, Germania e Paesi Bassi vantano tra i più bassi tassi di disoccupazione e inattività in Europa, dimostrando che regole certe e ben applicate non scoraggiano le assunzioni, ma anzi offrono un quadro più stabile per lavoratori e imprese.
Inoltre, entrambi i Paesi investono circa l’1% del PIL in politiche attive del lavoro. L’Italia, invece, spende solo lo 0,22% secondo l’Istituto Nazionale per l’Analisi delle Politiche Pubbliche (INAPP), ben al di sotto della media UE (0,61%). Senza strumenti di riqualificazione e accompagnamento, la flessibilità diventa arbitrio.
Il vero freno è la mancanza di strategia
Non è l’eccesso di protezione a frenare l’occupazione, ma la sua assenza di direzione. Un mercato del lavoro funziona se è equilibrato: con regole certe, investimenti nel capitale umano e politiche attive che accompagnano il cambiamento.
Il Referendum sul lavoro dell’8 e 9 giugno offre l’occasione per riflettere su quale modello di sviluppo vogliamo: un’economia che cresce precarizzando, o una che investe su stabilità, innovazione e diritti? Quale strada vogliamo imboccare come Paese?