Sigfrido Ranucci, conduttore di Report, non chiede pietà. Non pretende che i potenti ritirino le querele che da anni gli piovono addosso come grandine. Chiede qualcosa di molto più scomodo per il potere: una legge che renda costosa, finalmente, la menzogna giudiziaria usata per zittire la stampa. “Non voglio vincere per assenza di giocatori, voglio vincere sul campo”, ha detto. Ed è in questa frase, più che in cento comunicati di solidarietà, che si riassume l’essenza della libertà di informazione.
Le “liti temerarie”, così vengono definite le cause intentate con dolo o leggerezza contro giornalisti, spesso solo per intimidirli, sono da decenni una delle armi più efficaci del potere politico ed economico contro chi racconta la realtà. Non servono a ristabilire la verità, ma a minacciare la parola. A consumare tempo, energie e denaro. Chi ha risorse illimitate usa la giustizia come clava; chi vive del proprio lavoro d’inchiesta, come Ranucci o i cronisti di provincia, deve difendersi con le mani nude.
Oggi Ranucci conta oltre duecento querele pendenti. La maggior parte, come accade quasi sempre, finirà archiviata. Ma l’obiettivo di chi querela non è vincere: è far male. È costringere il giornalista a difendersi invece di indagare, a spendere invece di raccontare. È il paradosso della libertà di stampa italiana, formalmente intatta, materialmente logorata da un sistema giudiziario che punisce la verità più della menzogna.
La legge contro le querele temerarie esiste, ma è un guscio vuoto. Raramente chi perde paga davvero. Serve una riforma che stabilisca in modo chiaro e automatico che chi querela sapendo di mentire, chi trascina un cronista in tribunale nonostante i fatti siano veri e documentati, debba risarcire il danno economico e morale arrecato. Non un simbolico rimborso, ma una sanzione proporzionata alla gravità dell’abuso. Solo così la bilancia tornerà in equilibrio.
C’è un principio democratico che sembra dimenticato: la verità non deve difendersi col portafoglio. Se il prezzo della parola è l’indebitamento, allora la libertà è già perduta.
Mentre la macchina del fango si affina e le intimidazioni si fanno più sofisticate, dagli attacchi mediatici alle multe sproporzionate come quella di 150mila euro inflitta a Report, la politica resta in silenzio. Troppo spesso, anzi, applaude. Perché una stampa impaurita è più comoda di una stampa libera.
Non è in gioco solo il destino di un giornalista o di una trasmissione televisiva, ma la qualità stessa della democrazia italiana. Un Paese in cui dire la verità diventa un rischio economico non è libero, è solo apparentemente civile. E un potere che querela per intimidire non difende la propria reputazione: la infanga.
Per questo la proposta di Ranucci non è una rivendicazione personale, ma un atto di giustizia pubblica. Non serve ritirare le querele, serve che chi le usa come arma paghi il prezzo della propria intimidazione. Salato, come dice lui. Perché la libertà d’informazione non si difende con gli applausi, ma con le leggi.
Solo quando querelare un giornalista per zittirlo costerà più che ascoltarlo, l’Italia potrà dirsi davvero un Paese dove la verità non ha paura di parlare.
