La proposta della Customs and Border Protection (Cbp) di rendere obbligatoria, per i richiedenti ESTA (sistema elettronico per l’autorizzazione al viaggio), la consegna della propria cronologia social degli ultimi cinque anni segna un nuovo capitolo nel già intricato rapporto tra sicurezza e libertà. L’ipotesi di chiedere anche selfie, indirizzi e-mail, numeri di telefono usati nel tempo e persino dati biometrici aggiuntivi, dal DNA alla scansione dell’iride, spinge l’asticella del controllo a un livello mai visto per semplici soggiorni turistici.
Opinioni politiche sotto osservazione
Se approvata, la norma trasformerebbe il processo di ingresso negli Stati Uniti in una sorta di verifica digitale preventiva, con implicazioni politiche difficili da ignorare. Negli ultimi mesi sono infatti circolate testimonianze di viaggiatori respinti dopo che gli agenti di frontiera avevano giudicato “troppo critica” la loro attività online nei confronti di Donald Trump o di JD Vance. Un terreno scivoloso, quando il confine inizia a valutare opinioni anziché identità, la sicurezza sfuma in qualcosa di più vicino a un controllo ideologico.
Il rischio di un boomerang diplomatico
In un Paese che fa della libertà d’espressione uno dei suoi pilastri, l’idea che un post ironico o un commento politico possa influenzare la possibilità di entrare rischia di diventare un boomerang diplomatico e culturale. Ma il contraccolpo non sarebbe solo simbolico, a essere colpite potrebbero essere soprattutto le industrie del turismo e delle esperienze on the road, un settore che negli Stati Uniti vale miliardi e che ancora oggi fatica a tornare ai livelli pre-pandemici.
Turismo in bilico: agenzie e parchi nazionali a rischio
Le agenzie specializzate in tour paesaggistici e culturali, dai parchi nazionali ai grandi itinerari tra canyon, deserti e città storiche, temono già che la combinazione tra controlli digitali più severi e tariffe d’ingresso maggiorate per gli stranieri sottragga visitatori a destinazioni iconiche come Yellowstone, Glacier o il Grand Canyon. La tempistica, poi, non aiuta, con la Coppa del Mondo 2026 alle porte, milioni di tifosi potrebbero decidere di evitare trafile percepite come invasive, scegliendo alternative più agevoli.
“Il visto è un privilegio”: un messaggio discutibile
Sul fronte politico, il Dipartimento di Stato ha ribadito che “il visto è un privilegio, non un diritto”. Un messaggio chiaro, che però rischia di apparire in contrasto con l’idea di un Paese aperto e competitivo. E mentre l’amministrazione valuta persino l’estensione del divieto di viaggio a nuovi Paesi, l’impressione è quella di un’America che alza muri burocratici proprio mentre cerca di attrarre visitatori e investimenti.
Ora la parola al pubblico
La bozza di regolamento è ora soggetta a 60 giorni di commenti pubblici. Sarà questo il banco di prova per capire se il sistema americano riuscirà a trovare un equilibrio tra legittime esigenze di sicurezza e una gestione del confine che non penalizzi la libertà personale né il tessuto economico che vive di turismo internazionale.
Un segnale confuso che pesa sull’immagine degli USA
Per ora, il messaggio che arriva al mondo è ambiguo. E rischia di tradursi in un danno concreto per quelle comunità e imprese che, lontano da Washington, costruiscono ogni giorno l’immagine più autentica e accogliente degli Stati Uniti.
