
In Italia abbiamo una certa propensione a litigare sulle cose ancora prima che esistano. È un talento nazionale, un po’ come il calcio parlato al bar o l’arte di fare il caffè in tre mosse precise. Stavolta, il campo di battaglia è sospeso, letteralmente, tra Calabria e Sicilia: il Ponte sullo Stretto, quello che dovrebbe unire le due sponde e che, sulla carta, è già più lungo della sua stessa ombra.
Il presidente della Regione siciliana, Renato Schifani, non ha dubbi: quel ponte, quando (e se) verrà inaugurato, dovrà portare il nome di Silvio Berlusconi. Il Cavaliere, del resto, lo aveva inserito nel suo album dei sogni infrastrutturali già negli anni in cui le dirette TV erano in 4:3. Per Schifani, sarebbe un omaggio alla “lungimiranza” e alla “visione” dell’ex premier, l’uomo che aveva promesso di collegare due mondi e che, almeno nelle intenzioni, li aveva già avvicinati.
Ma non tutti si sono precipitati a incidere il nome sulla targa. Matteo Salvini, ministro dei Trasporti e vero frontman della rinascita del progetto, ha scelto un elegante “ne parleremo”. Tradotto dal politichese: calma, la partita è ancora aperta. Un po’ perché Berlusconi ha già avuto l’aeroporto di Malpensa in suo onore, un po’ perché intitolare il ponte prima di vederlo sorgere rischia di portare sfortuna. E un po’, viene da sospettare, perché a Salvini piacerebbe entrare nella storia con il suo nome inciso sopra, magari in caratteri ben visibili anche dalla luna.
Dopotutto, è una questione di simboli. In un Paese dove ogni rotonda, cavalcavia e scuola elementare è frutto di battaglie toponomastiche, il Ponte sullo Stretto non può certo sfuggire alla tentazione. C’è un fascino irresistibile nell’essere ricordati per qualcosa che attraversa il mare, un’opera che, se mai completata, finirà sulle cartoline, nei libri di scuola e, soprattutto, nei discorsi dei politici in cerca di immortalità.
Il problema è che, al momento, il ponte esiste più nelle conferenze stampa che nei cantieri. È una creatura di rendering e promesse, con piloni che vivono solo nelle animazioni 3D. Eppure, già suscita discussioni degne di una statua in bronzo: chi ci mette il nome? Schifani caldeggia Berlusconi, Salvini temporeggia, ma nel frattempo è facile immaginare che tra un po’ spunti qualche altra proposta: perché non Falcone e Borsellino? Perché non un generico “Ponte dell’Unità d’Italia”?
La verità è che in questa gara simbolica c’è un sottotesto chiaro: il Ponte sullo Stretto sarà, per chi lo porterà a termine, un monumento politico. E in un Paese dove i governi passano ma le opere (quando arrivano) restano, avere la paternità dell’infrastruttura è un lascito che vale più di molte leggi approvate in silenzio.
Salvini lo sa bene: se il progetto andrà in porto, lui sarà il ministro che “ce l’ha fatta”. Un titolo che, da solo, merita un nome sulla targa inaugurale. Forse non scriverà “Ponte Matteo Salvini” (per modestia o per evitare meme infiniti), ma qualcosa che ne ricordi l’impegno ci sarà. Magari sotto forma di placca “in ricordo del ministro dei Trasporti che lo volle e lo costruì”.
Per ora, la battaglia resta verbale. C’è chi sogna di vedere Berlusconi eterno tra le onde e chi, più pragmatico, vuole attendere di piantare il primo pilone. E intanto, in Sicilia e Calabria, si continua a discutere se il ponte servirà davvero o se resterà uno dei tanti monumenti all’italiana: progettato, finanziato, litigato… e poi chissà.
Una cosa però è certa: se il ponte non dovesse mai nascere, il record di discussioni sul nome di qualcosa che non esiste rimarrà un’opera tutta italiana. E quella, almeno, non crollerà mai.