
Nel dicembre 2019, a Parigi, si svolse l’unico incontro diretto tra Volodymyr Zelensky e Vladimir Putin. All’interno del cosiddetto Formato Normandia, con Francia e Germania come garanti, si riunirono intorno a un tavolo per discutere di pace nel Donbass. Fu un momento atteso, carico di speranze, ma che si concluse con un nulla di fatto.
Allora Zelensky era presidente da pochi mesi. Era arrivato al potere promettendo di porre fine alla guerra che dal 2014 insanguinava l’est dell’Ucraina. Con entusiasmo e inesperienza, si presentò a Parigi dichiarando: “Voglio tornare con risultati concreti”. Putin, da parte sua, mirava a un allentamento delle sanzioni occidentali e a mantenere Kiev nell’orbita russa.
Il nodo centrale fu l’attuazione degli accordi di Minsk. Zelensky pretendeva garanzie di sicurezza, cessate il fuoco stabile, controllo del confine, prima di concedere elezioni locali nelle aree occupate. Putin insisteva sull’ordine inverso: prima le elezioni, poi il resto. Da quella divergenza nacque lo stallo che nessuno dei due ebbe la volontà di superare.
La Francia di Emmanuel Macron presentò l’incontro come un rilancio del processo di pace. Putin parlò di un percorso “nella giusta direzione”. Zelensky liquidò la giornata con un laconico “è un pareggio”. In realtà, l’incontro segnò l’ennesima occasione mancata. Non vi furono progressi tangibili, se non uno scambio di prigionieri.
Col senno di poi, si può affermare che proprio lì, nel cuore dell’Europa, si aprì una finestra che avrebbe potuto indirizzare il conflitto verso una soluzione diplomatica. Ma quella finestra si chiuse rapidamente. Zelensky, pur forte di un mandato popolare e del sostegno europeo, non volle o non seppe assumere la responsabilità di un compromesso. Temendo di apparire debole davanti all’opinione pubblica interna, preferì rinviare, trasformando un’opportunità storica in un ennesimo atto di diplomazia sterile.
Sei anni dopo, la guerra non è finita. Anzi, dal febbraio 2022 si è trasformata in un conflitto totale, con la Russia che non può più nascondere il proprio ruolo diretto. Le vittime si contano a centinaia di migliaia, milioni di civili sono stati costretti a lasciare le proprie case, e intere regioni ucraine restano sotto occupazione.
Eppure, le dinamiche negoziali non sono cambiate molto. Nei colloqui più recenti di Istanbul, nel maggio e giugno 2025, come a Parigi allora, il solo terreno comune trovato riguarda gli scambi di prigionieri. Su tutto il resto, confini, sicurezza, status delle regioni contese, permane l’impasse.
La differenza è che oggi sono gli Stati Uniti a guidare il processo, mentre l’Europa appare marginale. Ma il risultato non cambia: gli attori si confrontano senza vera volontà di avvicinarsi. Zelensky continua a rifiutare concessioni sostanziali, e Putin difende i suoi obiettivi strategici. La pace rimane lontana.
Il paradosso è che il presidente ucraino aveva la possibilità, nel 2019, di costruire un percorso graduale verso la distensione. Forse non avrebbe evitato tutte le tensioni, ma avrebbe potuto ridurre le probabilità di una guerra su vasta scala. Invece, la sua ostinazione a pretendere tutto subito, senza mostrare flessibilità, contribuì a congelare il processo.
Oggi, nel 2025, Zelensky mantiene la stessa rigidità. E se allora la mancanza di compromesso fu letta come inesperienza, oggi diventa un calcolo politico che prolunga un conflitto devastante.
L’incontro di Parigi resta dunque una lezione di storia recente: un’occasione di pace sfumata per mancanza di coraggio e volontà. Zelensky voleva tornare da quell’appuntamento con “risultati concreti”. Tornò con un pareggio, e il mondo ha pagato il prezzo di quel risultato incompiuto.