La parata che parla al mondo

L’alleanza tra Pechino, Mosca e Pyongyang rivendica un ruolo globale alternativo all’Occidente

Vladimir Putin - Xi Jinping - Kim Jong Un

La parata militare di Pechino, celebrata per l’80° anniversario della resa del Giappone, non è stata soltanto un esercizio di memoria storica o un trionfo di coreografia nazionale. È stata un segnale al mondo, un messaggio diretto agli Stati Uniti e all’Occidente: il baricentro della potenza globale non è più univocamente occidentale, e le vecchie logiche di dominio non incutono più timore.

Xi Jinping, affiancato da Vladimir Putin e Kim Jong Un, ha scelto di trasformare Piazza Tiananmen in un palcoscenico geopolitico. La presenza del presidente iraniano Masoud Pezeshkian ha completato il quadro di un’alleanza che molti commentatori hanno definito “Asse dell’insurrezione”. Non è un caso che gli stessi attori siano quelli più direttamente coinvolti nella guerra in Ucraina, nel sostegno militare a Mosca e nell’opposizione alle strategie statunitensi di contenimento.

Non solo una dimostrazione militare

La parata non è stata soltanto una dimostrazione militare. È stata una manifestazione di esistenza politica ed economica. La Cina, con la sua crescita inarrestabile, ha messo in mostra tecnologie che pochi anni fa sembravano fantascienza: droni subacquei, laser, carri armati “intelligenti” e, soprattutto, missili a capacità nucleare lanciabili da ogni vettore. È un modo per dire che la deterrenza non è più un monopolio americano.

Ma ciò che colpisce è la convergenza diplomatica. Russia, Corea del Nord, Iran e Cina hanno interessi diversi, ma oggi si ritrovano accomunati da una convinzione: l’egemonia statunitense non è più intoccabile. Se a questo mosaico aggiungiamo il ruolo crescente dell’India, sempre più assertiva sul piano globale e attenta a difendere la propria autonomia strategica, appare chiaro che siamo di fronte a un blocco asiatico che parla al mondo con voce propria. È un blocco che non cerca la guerra totale, ma la parità di dignità, la capacità di mostrare che esiste un ordine alternativo a quello costruito a Washington.

La consueta arroganza di Donald Trump

Donald Trump, da parte sua, ha reagito con la consueta arroganza. Ha liquidato l’alleanza come irrilevante, proclamando che “gli Stati Uniti hanno l’esercito più forte del mondo”. Ma le sue parole suonano sempre più vuote. La stessa ironia con cui ha finto di salutare Xi, Putin e Kim tradisce una verità imbarazzante: non basta la forza bruta per garantire il rispetto, soprattutto quando la potenza americana appare logorata da conflitti infiniti e da divisioni interne.

La parata di Pechino ha mostrato un entusiasmo popolare autentico. Le immagini di cittadini in lacrime, orgogliosi della potenza nazionale, contrastano con un Occidente spesso ripiegato sul proprio disincanto politico. È un segnale che l’orgoglio identitario, seppur alimentato da retoriche di partito, trova terreno fertile laddove si percepisce sicurezza e stabilità.

Certo, resta la questione del revisionismo storico, del nazionalismo esasperato, del rischio di una nuova guerra fredda. Ma ridurre il fenomeno a propaganda è un errore analitico. La Cina e i suoi partner stanno indicando che la partita mondiale non è più a senso unico. Che il secolo americano, se mai è esistito, oggi convive con un secolo asiatico in piena costruzione.

In questo contesto, l’arroganza di Trump e di una parte dell’élite americana non spaventa nessuno. Al contrario, rischia di rafforzare la coesione di chi si sente marginalizzato dal presunto ordine liberale occidentale. L’Asse che abbiamo visto a Pechino non è solo un simbolo: è una realtà diplomatica, militare ed economica che non può più essere ignorata.

La storia ci insegna che le parate passano, ma i messaggi restano. E il messaggio di Tiananmen è chiaro: il mondo non appartiene più a una sola potenza, e chi si ostina a credere il contrario rischia di ritrovarsi prigioniero della propria illusione.