Il paradosso di Bologna e la legge che inciampa nella realtà

La protesta dei metalmeccanici smaschera la fragilità repressiva del Decreto Sicurezza

Diecimila metalmeccanici hanno bloccato la tangenziale di Bologna per mezz’ora. Una protesta compatta, organizzata, pacifica, visibile. È accaduto in una delle città simbolo del lavoro organizzato, sotto lo sguardo attento di una Questura che ora annuncia una pioggia di denunce. Il motivo? La violazione della recente normativa introdotta dal cosiddetto “Decreto Sicurezza” in materia di blocchi stradali. La legge, lo ricordiamo, qualifica penalmente l’occupazione non autorizzata della carreggiata, anche se attuata senza violenza.

Ma qui emerge il paradosso. Da un lato, l’Autorità di pubblica sicurezza ha autorizzato il corteo e predisposto un servizio d’ordine pubblico per garantirne il pacifico svolgimento. Dall’altro, quando i manifestanti hanno scelto di imboccare la tangenziale dall’uscita 7, la Questura ha preso atto della “deviazione” e, pur non intervenendo con la forza, ha dichiarato l’inizio dell’iter per le denunce penali.

Ora: davvero è credibile che verranno denunciati diecimila lavoratori? Non solo non è credibile, è giuridicamente e logisticamente insostenibile. Una cosa è evocare la legge come deterrente, altra cosa è applicarla in modo meccanico contro una protesta collettiva di tale portata e impatto simbolico.

La sproporzione tra la norma e il suo oggetto è evidente. Il Decreto Sicurezza, pensato per scoraggiare blocchi improvvisi e potenzialmente pericolosi, spesso di natura estemporanea o violenta, si scontra con una mobilitazione sindacale strutturata, annunciata, radicata nella crisi di un settore cardine del Paese. Questa non era una protesta cieca, ma un messaggio lucido: senza contratto, il Paese si ferma. E simbolicamente, per trenta minuti, si è fermato davvero.

C’è poi un altro punto da sollevare, più politico. Quando migliaia di lavoratori attraversano in corteo la tangenziale di una città industriale per chiedere il rinnovo di un contratto scaduto da oltre un anno, non stanno solo rivendicando salario, orario o welfare. Stanno esercitando un diritto costituzionale: quello alla rappresentanza collettiva e alla contrattazione. È questo diritto che dovrebbe avere la precedenza, anche nei casi di frizione con la disciplina dell’ordine pubblico. La legalità, in democrazia, non può mai essere ridotta alla sola dimensione dell’obbedienza. Deve saper riconoscere anche la legittimità di chi, disobbedendo, richiama l’attenzione su un’ingiustizia.

Del resto, l’immagine degli operai che marciano a braccetto sulle note dei Queen, “Don’t stop me now”,  dice molto più di mille verbali. Dice di una classe lavoratrice che non accetta di essere resa invisibile, che rifiuta l’idea di trattare il contratto collettivo come una concessione. E che, come a Genova, Ancona, Bologna, fa sentire la propria voce anche quando le contromisure politiche cercano di limitarne la risonanza.

In conclusione, quanto accaduto a Bologna non è la violazione di una norma. È il cortocircuito tra una legge pensata per la repressione e una realtà sociale che chiede, con forza, di essere ascoltata. Il tentativo di usare il codice penale per scoraggiare la conflittualità sindacale si sta rivelando non solo inefficace, ma controproducente. La repressione simbolica di massa non è una soluzione. È il sintomo di un vuoto politico che nessuna denuncia potrà colmare.

Il Paese non si ferma per mezz’ora. Si ferma quando chi lavora smette di credere che manifestare serva ancora a qualcosa. Ecco perché Bologna è un campanello d’allarme. E ignorarlo sarebbe l’errore più grave.