Orban si sfila, Meloni firma

Novanta miliardi per l’Ucraina, tre Stati votano sì a patto che siano gli altri a pagare

Ursula von Der Leyen - Giorgia Meloni

Il Consiglio europeo ha deciso di finanziare l’Ucraina con un prestito da 90 miliardi di euro attraverso debito comune, rinunciando, almeno per ora, all’uso degli asset russi immobilizzati. La notizia viene presentata come una prova di unità e responsabilità. In realtà, racconta una storia molto diversa, quella di un’Unione che scarica i costi su alcuni Stati membri mentre altri si sfilano senza pagare il prezzo politico delle proprie scelte.

Ungheria, Repubblica Ceca e Slovacchia non parteciperanno al programma. Votano sì, ma non mettono un euro. Una “cooperazione rafforzata” consente loro di restare dentro la decisione politica e fuori dalla responsabilità finanziaria. Il conto, invece, lo pagheranno gli altri. È difficile chiamare questa solidarietà europea, assomiglia piuttosto a una mutualizzazione selettiva delle perdite.

Il nodo centrale è semplice e politicamente esplosivo, chi paga questa guerra? Perché di questo si tratta. Un conflitto che non mostra segnali credibili di conclusione, che continua a drenare risorse pubbliche e che ora viene finanziato non facendo pagare l’aggressore, ma indebitando ulteriormente l’Unione. Gli asset russi restano congelati per timore di ritorsioni legali e finanziarie, soprattutto per il Belgio che li ospita tramite Euroclear. Così, per evitare un rischio giuridico, si sceglie una certezza: il debito.

Debito che, al netto delle formule, ricade sui contribuenti europei. La Commissione parla di prestito senza interessi per Kiev, da ripagare un domani con ipotetiche riparazioni russe. Ma nessuno è in grado di garantire che la Russia pagherà mai. È più realistico pensare che quel prestito diventi una sovvenzione permanente. E allora la domanda non è se l’Europa sostiene l’Ucraina, ma quanto a lungo e a quale prezzo per le proprie società.

In questo quadro, la posizione di Viktor Orbán appare cinica ma politicamente efficace. Non paga, critica la guerra, ottiene l’esenzione e porta a casa il risultato. Giorgia Meloni, invece, paga. E paga senza poter rivendicare alcuna autonomia sostanziale. Eppure Orbán e Meloni siedono, almeno formalmente, nella stessa famiglia politica europea. La differenza non è ideologica, è di peso negoziale e di scelta strategica, uno dice no fino in fondo, l’altra dice sì anche quando il costo è evidente.

Il paradosso è che l’Unione rivendica “sovranità” mentre emette nuovo debito per coprire una guerra che non controlla e di cui non guida l’esito. Si evita di toccare gli asset russi per non minare la certezza del diritto, ma si normalizza l’idea che il bilancio europeo possa essere usato come ammortizzatore permanente di un conflitto esterno. È una scelta politica, non tecnica. E come tale dovrebbe essere discussa apertamente.

Per ora, invece, si procede per inerzia, si finanzia perché “non c’è alternativa”, si rinvia il problema delle riparazioni, si accetta che alcuni Stati paghino e altri no. Ma i cittadini europei vedono una cosa chiarissima, la fine della guerra è lontana, il costo è già qui. E cresce.