
Il caso dell’attaccante israeliano Shon Weissman, il cui trasferimento al Fortuna Düsseldorf è stato annullato dopo proteste per i suoi post sui social, apre una riflessione più ampia su cosa significhi oggi rappresentare una comunità, anche attraverso una maglia sportiva. E soprattutto, su quanto il linguaggio, in tempi di guerra e polarizzazione, possa essere più pericoloso di una bomba.
Secondo le ricostruzioni pubblicate da Bild, Weissman avrebbe scritto sui social frasi come:
“Cancellare Gaza dalla carta geografica”,
“Sganciare 200 tonnellate di bombe su di essa”,
“Non ci sono innocenti (a Gaza), non hanno bisogno di essere avvertiti”.
Parole che non possono essere archiviate come sfoghi momentanei. Sono enunciati che disumanizzano, che evocano una strategia di annientamento collettivo, che eliminano la distinzione tra civili e combattenti. È un lessico che non ammette l’esistenza di un “altro” umano, ma solo di un nemico assoluto da cancellare.
E poco importa, a questo punto, che l’agente del giocatore abbia cercato di scaricare la responsabilità su un social media manager, o che i post siano poi stati rimossi. Il contenuto è stato pubblicato, condiviso, sostenuto. E un procuratore spagnolo, già nel 2023, aveva ricevuto una denuncia per incitamento all’odio proprio legata all’attività online di Weissman.
Il Fortuna Düsseldorf, inizialmente pronto a difendere l’ingaggio, ha infine fatto marcia indietro:
“Abbiamo esaminato intensamente Shon Weissman, ma alla fine abbiamo deciso di non contrattualizzarlo.”
Una scelta, quella del club tedesco, che non può essere ridotta al calcolo della reputazione o alla paura di una crisi d’immagine. È una presa di posizione sul confine etico che divide la libertà d’opinione dall’odio sistemico, e su cosa significhi rappresentare una squadra, una città, una comunità di tifosi.
Nessuno chiede agli atleti di essere apolitici. Ma c’è una differenza sostanziale tra l’esprimere una posizione su un conflitto, per quanto controversa, e l’utilizzare i social per alimentare la retorica della punizione collettiva, o addirittura del genocidio. Quando si afferma che “non ci sono innocenti” in un’intera popolazione, composta in larga parte da bambini, donne e anziani, si legittima ogni atrocità.
Certi ambienti reagiscono a queste decisioni parlando di repressione o di conformismo ideologico. Ma la questione è eminentemente politica, non ideologica: riguarda la responsabilità pubblica di chi rappresenta un’istituzione, un simbolo collettivo. Nessuno ha un diritto acquisito a indossare una maglia. Giocare per un club non è solo una prestazione tecnica, ma un atto pubblico che implica rappresentanza, linguaggio e coerenza. Se una società decide di non associare il proprio nome a chi ha pubblicamente espresso posizioni incompatibili con i suoi principi, non si tratta di esclusione arbitraria, ma di un atto politico di scelta e di identità.
Il caso Weissman ci ricorda che in un mondo dove ogni parola lascia una traccia, anche un like può pesare come un macigno. E che in tempi in cui la guerra si combatte anche con l’informazione e la disinformazione, con i tweet e con le stories, nessuno è davvero neutrale.
Chi rappresenta un collettivo, sia esso una squadra di calcio o una nazione, ha il dovere di non trasformare la rabbia in disumanizzazione. Il diritto alla sicurezza di uno non può mai passare per la negazione dell’umanità dell’altro.
Il calcio, come ogni sport, non è solo intrattenimento. È un riflesso della società. E a volte, ha ancora il potere di dire: “questo no”.