
In Italia, il dibattito politico fatica ancora a tracciare un confine netto tra garantismo giudiziario e responsabilità politica. La presunzione d’innocenza è e resta un fondamento imprescindibile dello Stato di diritto: nessuno è colpevole fino a sentenza definitiva. Ma quando si parla di chi esercita funzioni pubbliche, questo principio non può diventare lo scudo dietro cui si nasconde l’opportunismo politico.
In democrazia, chi governa non risponde solo alla legge: risponde ai cittadini. E proprio per questo, l’etica pubblica, non il codice penale, dovrebbe essere la bussola della responsabilità politica. Nei Paesi del Nord Europa, dove la cultura istituzionale è improntata a un rispetto rigoroso verso l’elettorato, l’opportunità politica precede ogni valutazione giudiziaria. Un ministro o un amministratore coinvolto in una vicenda controversa, anche solo sospettato di comportamenti non trasparenti, si dimette. Non perché sia colpevole, ma perché la fiducia dei cittadini va tutelata prima di ogni altra cosa.
In Italia, al contrario, si invoca il garantismo per giustificare l’inerzia. Si resta al proprio posto anche quando emergono intercettazioni, testimonianze e documenti che solleverebbero più di un imbarazzo in qualunque democrazia matura. Si attende il terzo grado di giudizio come se la legittimazione politica dipendesse esclusivamente da una sentenza, e non anche dal giudizio morale e politico dell’opinione pubblica.
Il caso della ministra Santanchè è emblematico. Il suo rinvio a giudizio non è una condanna, ma è un fatto politicamente rilevante. È compatibile con un incarico di governo una figura su cui pendono accuse documentate e gravi? È accettabile che si continui a governare come se nulla fosse, mentre la fiducia dei cittadini si erode e la credibilità delle istituzioni vacilla?
In un sistema politico maturo, la risposta sarebbe scontata. La responsabilità pubblica non tollera zone grigie. E se anche un solo dubbio danneggia l’immagine di un’istituzione, chi ne è causa ha il dovere morale di farsi da parte. Non per ammettere colpe che la giustizia non ha ancora accertato, ma per difendere l’onorabilità dell’ufficio che ricopre.
Il Parlamento non è un tribunale. Non ha il compito di giudicare reati, ma ha il dovere di vigilare sulla dignità dell’azione politica. La classe dirigente dovrebbe interrogarsi su un dato semplice ma fondamentale: cosa significa davvero essere al servizio dei cittadini? È forse più importante preservare l’equilibrio di una maggioranza, o restituire credibilità alle istituzioni?
In troppi casi, la politica italiana ha preferito la protezione del “principio” alla trasparenza del comportamento. Ha confuso il garantismo con l’autoconservazione. Ma è tempo di cambiare paradigma. Un politico è un simbolo della fiducia che i cittadini ripongono nelle istituzioni. E se quel simbolo viene oscurato, è dovere della politica fare un passo indietro.
L’opportunità politica non è una concessione al populismo giustizialista. È, al contrario, un atto di maturità democratica. È la dimostrazione che lo Stato, prima di proteggere chi lo rappresenta, protegge chi gli ha dato il mandato.
In questa capacità di distinguere tra ciò che è legale e ciò che è giusto, tra ciò che è permesso e ciò che è opportuno, si misura la serietà della nostra democrazia. E la distanza che ancora ci separa da quella cultura nord-europea che, con sobrietà e fermezza, antepone la responsabilità pubblica agli interessi di partito.