
C’è una linea sottile ma decisiva che separa la diplomazia della forza da quella del principio. La decisione del Comitato norvegese per il Nobel di assegnare il Premio per la Pace 2025 a María Corina Machado, leader dell’opposizione venezuelana, ha tracciato quella linea con chiarezza. In un anno in cui molti, governi compiacenti, alleati strategici e lo stesso Donald Trump, spingevano per un riconoscimento che avrebbe consacrato il ritorno del presidente americano come “pacificatore globale”, il Comitato ha scelto di restare fedele alla volontà originaria di Alfred Nobel: premiare chi lotta per la pace come condizione di libertà, non chi la tratta come una transazione geopolitica.
Il Comitato sceglie il principio sulla forza
Il verdetto è arrivato quando la macchina della propaganda trumpiana era già in moto. Video celebrativi, dichiarazioni trionfalistiche, endorsement internazionali compresi uomini di governo italiani di primo piano: tutto suggeriva che la decisione fosse solo una formalità. Ma la realtà, più sobria e più rigorosa, è che l’accordo tra Israele e Hamas, per quanto importante, è giunto “troppo tardi”. Il Comitato aveva già deliberato giorni prima. E, soprattutto, il premio non è mai stato concepito per legittimare accordi di breve durata o manovre di consenso elettorale.
La pace di chi rischia, non di chi governa
María Corina Machado incarna un’altra idea di pace: non quella imposta dai rapporti di forza, ma quella costruita nel rischio, nella resistenza civile e nella coerenza morale. La sua battaglia per una transizione pacifica verso la democrazia in Venezuela è la dimostrazione che la pace autentica nasce dall’assenza della paura, non dal silenzio imposto. In un paese schiacciato da decenni di autoritarismo, il suo lavoro non ha prodotto comunicati spettacolari o vertici televisivi, ma un lento e tenace risveglio della coscienza democratica.
Un premio come dichiarazione d’indipendenza
Il messaggio del Comitato norvegese è chiaro: la pace non si compra con la visibilità né si misura con la durata di un mandato presidenziale. Si conquista con la credibilità, con l’impegno quotidiano, con la coerenza tra fini e mezzi. In questo senso, il Nobel a Machado è una dichiarazione d’indipendenza. Non solo dai “poteri forti” che avrebbero voluto un riconoscimento funzionale alla narrativa di Washington, ma anche dalla logica della spettacolarizzazione politica che Trump ha fatto sua.
Attivisti contro leader: la scelta morale del Nobel
La storia recente del Premio lo conferma: negli ultimi anni, il Comitato ha privilegiato attivisti, giornalisti e difensori dei diritti civili rispetto ai capi di Stato. Non per ideologia, ma per prudenza: la pace istituzionale, senza un fondamento morale, si sgretola alla prima crisi. Le “sette guerre senza fine” che Trump dice di aver risolto appartengono a una retorica di potenza, non a un progetto di riconciliazione. La pace, nel linguaggio del Nobel, è un processo giuridico e umano insieme, non un trofeo diplomatico.
La legittimità nasce dal diritto, non dal potere
Certo, la decisione è anche politica, ma nel senso più alto del termine. Premiare Machado significa riconoscere che la legittimità internazionale non nasce dalla forza, bensì dal diritto. Significa ricordare che la democrazia, in Venezuela come altrove, non è una concessione del potere ma una conquista dei cittadini. E che l’Occidente, spesso incline a confondere leadership con carisma, deve tornare a distinguere tra chi costruisce istituzioni e chi costruisce consensi.
Trump e la diplomazia della scena
Trump, che ha definito il processo “truccato”, perde così una battaglia simbolica che non poteva vincere. Non perché manchino i risultati tattici della sua diplomazia, ma perché la sua idea di pace resta transazionale, non trasformativa. Il Nobel, invece, continua a rappresentare, almeno nelle sue migliori incarnazioni, un argine morale contro la riduzione della politica a spettacolo.
La pace non si firma: si testimonia
La vittoria di María Corina Machado non è soltanto un premio individuale: è un atto di resistenza contro la tentazione del potere di riscrivere le regole della legittimità. In un tempo in cui tutto sembra negoziabile, il Comitato norvegese ha scelto di ricordare che la pace, quella vera, non si firma. Si testimonia.