
C’era una volta Elon Musk, genio visionario, padre di Tesla, padrone di SpaceX, conquistatore di Twitter e profeta delle intelligenze artificiali. Poi, come spesso accade ai protagonisti delle tragedie moderne, è arrivata la politica, e con essa, Donald Trump.
L’uscita di scena di Musk dalla Casa Bianca è avvenuta con la stessa grazia con cui un razzo Starship si disintegra al decollo: un misto di spettacolo, imbarazzo e odore acre di bruciato. Il New York Times ha ricostruito i retroscena della sua permanenza accanto all’ex presidente, e il quadro è quello di un uomo sempre meno imprenditore e sempre più personaggio borderline, sospeso tra la gestione federale e la farmacologia ricreativa.
Altro che austerità da amministratore delegato: nel borsello da viaggio di Musk, racconta il Nyt, vi erano funghi allucinogeni, pasticche marchiate Adderall e una generosa dose di ketamina, l’anestetico che ha ucciso Matthew Perry. Il confine tra “uso medico” e “passatempo del sabato sera” pareva così sottile da scomparire, mentre la sua scatola quotidiana da venti pillole era diventata il suo vero piano industriale.
Ironia della sorte, Musk ha più volte dichiarato di essere contrario alle droghe illegali. Ma d’altronde, per stare accanto a Trump, o ti droghi o finisci per credergli sobrio. Musk ha scelto entrambe le vie, con risultati disastrosi.
Non bastava che la sua avventura politica avesse trascinato con sé anche i destini delle sue aziende: Tesla, in particolare, ha perso quota nei mercati e nell’immaginario collettivo. Le sue sortite come “capo del Doge” (non è uno scherzo: così si faceva chiamare) non hanno prodotto né risparmi miracolosi né rivoluzioni amministrative, ma solo promesse da trilione di dollari ridotte a cento miliardi e una crescente impazienza tra i funzionari governativi.
Fino all’epilogo da commedia nera: secondo il racconto di Steve Bannon, ex stratega della prima amministrazione Trump, Musk avrebbe preso a spintoni nientemeno che il segretario al Tesoro Scott Bessent. Motivo? Essere stato messo di fronte ai suoi fallimenti. “Ci avevi promesso un trilione!”, avrebbe urlato Bessent. “Ne abbiamo cento miliardi!”. Risposta di Musk: pugni e gomitate, a quanto pare fuori dall’ufficio della capo di gabinetto Susan Wiles. Altro che politica dei risultati: qui siamo al wrestling istituzionale.
Il paradosso finale è che, nella sua caduta, Musk sembra incarnare perfettamente lo spirito dell’era trumpiana: narcisismo, iperbole, dipendenza da attenzione (e da altro), promesse colossali mai mantenute e una relazione burrascosa con la realtà. Il visionario è diventato carne da gossip, il razionalista delle missioni spaziali è finito in una spirale di eccessi da rockstar sul viale del tramonto.
Eppure, nonostante tutto, c’è un che di simbolico nella fine di questo sodalizio: Musk che entra nella Casa Bianca come rivoluzionario e ne esce come caricatura di se stesso. Non c’è bisogno di ironizzare oltre: basta guardare il crollo delle sue azioni, le inchieste dei giornali e la foto della sua farmacia tascabile per capire che l’epopea è finita.
Forse un giorno scriveranno un libro: “Da Marte alla ketamina, ascesa e caduta di un visionario politico sotto l’effetto sbagliato”. Fosse stato solo un esperimento psichedelico, sarebbe bastato un trip sitter. Purtroppo, era la presidenza degli Stati Uniti.