
Dopo il faccia a faccia del 15 agosto 2025 tra Donald Trump e Vladimir Putin nella base militare di JBER, in Alaska, il mondo si è ritrovato con una foto in più e con pochi fatti concreti. L’incontro, durato tre ore, è stato immortalato in ogni dettaglio: sorrisi calibrati, strette di mano riprese da tutte le angolazioni, posture che volevano trasmettere dialogo e autorevolezza. The Guardian lo ha definito “un evento di grande impatto visivo ma povero di contenuti”, mentre la CNN ha parlato di “uno spettacolo costruito per le telecamere”. Se ne è parlato ovunque, scomposto e ricomposto come un mosaico. Ma dietro la vetrina restava solo il vuoto. E intanto, in Ucraina, il rumore delle bombe non si è mai spento. Come ha documentato BBC News, nelle stesse ore in cui i due leader apparivano fianco a fianco, i missili russi continuavano a colpire l’Ucraina: a Kharkiv e a Dnipro le sirene antiaeree risuonavano ancora, ricordando che la pace non si costruisce con un album fotografico.
Politico Europe ha definito l’Unione “spectator in chief”, spettatrice più che protagonista. Il Financial Times ha invitato a “riaffermare una voce autonoma” per non sembrare subalterna a Washington, mentre Le Monde ha osservato come Macron e gli altri leader si siano mossi in fretta proprio per non apparire “a rimorchio” delle decisioni di Trump. Perfino Der Spiegel aveva parlato di “eine doppelte Abhängigkeit”, una doppia dipendenza: prima dagli Stati Uniti e poi, indirettamente, dalle concessioni che Washington avrebbe potuto fare al Cremlino. Con una lettura del genere, l’Europa rischiava di incarnare l’immagine del “vassallo del vassallo”: subalterna a chi, a sua volta, si piegava allo Zar del Cremlino. El País ha sintetizzato con una formula altrettanto dura, ma profondamente esplicativa, quella della “subordinación en cascada”.
Una rappresentazione che i governi europei non potevano permettersi. Così, nella dichiarazione congiunta all’indomani del summit, Macron, Meloni, Merz, Starmer, Stubb, Tusk, Costa e von der Leyen hanno riaffermato con decisione l’inviolabilità dei confini ucraini e la piena autonomia di Kiev nel suo cammino verso l’Europa e l’Alleanza Atlantica.
“Questa mattina presto, il Presidente Trump ci ha informati, insieme al Presidente Zelenskij, in seguito al suo incontro con il Presidente russo in Alaska il 15 agosto 2025”, si legge nel documento, diffuso da Palazzo dell’Eliseo e rilanciato da tutte le principali agenzie. Parole che hanno subito assunto il peso di un impegno comune: “I leader hanno accolto con favore gli sforzi del Presidente Trump per fermare le uccisioni in Ucraina, porre fine alla guerra di aggressione della Russia e raggiungere una pace giusta e duratura”.
Trump, dal canto suo, ha lasciato intendere quanto il percorso resti ancora lungo. “Non c’è accordo finché non c’è un accordo”, ha detto, ribadendo che il prossimo passo dovrà essere “un ulteriore ciclo di colloqui che includa il presidente Zelenskij, che incontrerà presto”.
L’Europa si è dichiarata pronta ad accompagnare questo percorso: “Siamo inoltre pronti a lavorare con il presidente Trump e il presidente Zelenskij verso un vertice trilaterale con il sostegno europeo”.
Il cuore politico della dichiarazione, tuttavia, è arrivato subito dopo: “È chiaro che l’Ucraina deve avere garanzie di sicurezza solide e vincolanti per difendere efficacemente la propria sovranità e integrità territoriale. Accogliamo con favore la dichiarazione del Presidente Trump secondo cui gli Stati Uniti sono pronti a fornire garanzie di sicurezza. La Coalizione dei Volenterosi è pronta a svolgere un ruolo attivo. Non dovranno essere posti limiti alle forze armate ucraine né alla loro cooperazione con Paesi terzi. La Russia non può avere diritto di veto sul percorso dell’Ucraina verso l’UE e la NATO”.
Una linea netta, che non lascia spazio a interpretazioni: “Spetterà all’Ucraina prendere decisioni sul proprio territorio. I confini internazionali non devono essere modificati con la forza”.
Il documento si chiude con un impegno preciso: “Il nostro sostegno all’Ucraina continuerà. Siamo determinati a fare di più per mantenere l’Ucraina forte al fine di raggiungere la fine dei combattimenti e una pace giusta e duratura. Finché le uccisioni in Ucraina continueranno, siamo pronti a mantenere la pressione sulla Russia. Continueremo a rafforzare le sanzioni e le più ampie misure economiche per esercitare pressione sull’economia di guerra russa fino a quando non ci sarà una pace giusta e duratura”.
E l’ultima frase è una dichiarazione d’intenti che sa di promessa solenne: “L’Ucraina può contare sulla nostra incrollabile solidarietà mentre lavoriamo per una pace che salvaguardi gli interessi vitali di sicurezza dell’Ucraina e dell’Europa”.
Ma se le dichiarazioni dei leader europei suonano compatte e determinate, resta una domanda che rimbalza tra le cancellerie e nei corridoi della NATO: basteranno le parole a fermare le armi? Finché i missili continueranno a cadere sulle città ucraine, ogni summit rischierà di rimanere una scena da album fotografico e la vera pace, quella “giusta e duratura” evocata da Macron, Meloni, Merz, Starmer, Stubb, Tusk, Costa e von der Leyen, rischia di essere soltanto una formula retorica.
Dietro il linguaggio solenne e i richiami alla solidarietà, infatti, l’Unione Europea appare oggi più come una potenza di immagine che di sostanza. Ha saputo mostrarsi compatta, ha ribadito principi irrinunciabili, ma il suo margine d’azione immediato resta limitato. Le leve militari restano saldamente in mano a Washington e alla NATO, mentre il fronte economico delle sanzioni sembra aver raggiunto il limite della sua efficacia.
Eppure, proprio qui si intravede il ruolo che Bruxelles può giocare: non tanto sul campo di battaglia, quanto nella costruzione di un dopo. Se Trump davvero aprirà a un vertice trilaterale con Zelenskij e con il sostegno europeo, l’UE potrà proporsi come garante politico, finanziario e istituzionale di un percorso di pace. Non la forza che ferma i missili, ma quella che prepara le condizioni per ricostruire un Paese, consolidare le sue istituzioni e agganciarlo stabilmente al progetto europeo.
In questo fragile equilibrio, l’Europa non ha ancora il potere di cambiare le regole del gioco, ma può incidere sul tavolo delle trattative che verranno. È lì che si gioca la sua vera partita. E, per citare un amico che ha fatto dell’Europa il suo mestiere: “Eppur si muove…”.