Un momento, un’opportunità. Tempo di rischiare

Il progressivo riadattamento al mondo ci fa sentire spaesati, ma offre nuove possibilità, ben oltre la routine

Se c’è una consapevolezza che gli ultimi eventi ci hanno dato è che certe cose non si possono controllare. Il controllo sottende struttura e capacità di trovare una spiegazione più o meno razionale a ciò che ci succede. Nel caso del Covid si è scelto, secondo il proprio credo, di rifugiarsi nella scienza, nella religione, nel potere delle stelle o nel complotto, per associare una causa ad un effetto. Cercare di decifrare l’indecifrabile.

Il termine giapponese “Ichigo ichié”, attribuito al maestro della cerimonia del tè Sen no Rikyu, significa “una volta, un incontro”, o “in questo momento, un’opportunità”. Una specie di “cogli l’attimo”, filtrato da un popolo che sa per certo che la terra sotto i suoi piedi si rimetterà, un giorno non lontano, a tremare violentemente. Terremoti e tsunami avvengono con cadenza regolare in Giappone. È per questo che ogni volta che una scelta inusuale si presenta, magari orientata in direzione opposta alla ragionevolezza, in tanti tendono a coglierla. Ichigo ichié. Di oggi siamo sicuri, domani chissà. Allora perché non rischiare.

Tutto sotto controllo

Incertezza e mistero destabilizzano, ma svolgono anche un ruolo cruciale nel metterci in discussione, scuotendo il quotidiano. Esiste forse una coppia felice che non litiga mai? Un lavoro davvero sicuro? Una salute di ferro? Il conflitto è il fulcro di ogni storia ben scritta. La sua risoluzione, il punto di arrivo di un percorso ad ostacoli, fatto di rinnovamento e ricompensa. Un lieto fine.

I più risoluti sanno costruirsi una vita ben solida, rifuggendo la terribile incognita del non saper gestire o del non sapere tout court. Un lavoro prestigioso, un matrimonio, dei figli da far crescere in una bella casa. Con il numero dell’idraulico pronto in una cartella nella sezione “imprevisti”, il biglietto da visita del bistrot preferito in “ristoranti”. Un tavolo per quattro, alle 20, grazie. Poi però il bistrot chiude per cause di forza maggiore e le pareti di casa si mettono a tremare.

La rottura del silenzio, il ritorno alla vita

“Finalmente lo smog!”, diceva ridendo un amico workaholic che il vestito appeso nell’armadio e i figli adorati, ma dal lunedì al venerdì sconosciuti, avevano messo al tappeto. Lo diceva per scherzare, ma in fondo era serio. E per quanto contestabile, dal suo punto di vista, comprensibile. Se la rottura del silenzio e la pestilenza dell’aria hanno spezzato un incantesimo originato dal male, chi di noi non ha gioito alla vista delle saracinesche e delle terrazze dei bar riaperte? E quel primo caffè seduti a un tavolino, che sapore che aveva.

La libertà ritrovata, il volto delle persone care, l’apertura delle frontiere sono un toccasana, ma implicano anche la scomoda riaccettazione di polluzione, clacson e “stronzi” con cui avere ogni giorno a che fare. Un riadattamento che parte dalle cose più naturali come scambiare due chiacchiere con gli amici, in un tempo di mezzo a cui ognuno di noi è arrivato dopo un lungo confronto con se stesso.

Certezze capovolte

Molti hanno saputo affrontare il lockdown con coraggio e ispirazione, motivando chi invece non aveva avuto la stessa forza. Questo non significa che qualcuno ha vinto e qualcun altro perso. Non c’era nessuna partita in ballo.

La “libertà” ha provocato, insieme a un’immensa gioia, una certa paura. La sensazione di essere spaesati. Fuori fase. C’è chi, tornando in ufficio, ha avuto la conferma di un’ipotesi nata, esplosa, in quarantena. Che quella vita che fino a un paio di mesi prima sembrava non fare una piega, in fondo, non gli apparteneva. Chi si è lanciato a fare altro. Chi ha lasciato il compagno. Chi la città.

Sguardi che curano

Gli affetti, insieme al tempo, aiutano a capirci qualcosa. L’hanno fatto inconsapevolmente già nei primi giorni di libera uscita, negli strambi aperitivi generazione Covid i cui partecipanti arrivavano accompagnati dal proprio fantasma. Quelli mascherati, a un metro di distanza, seduti su gradini, panchine, marciapiedi. A offrirsi del gel per le mani insieme al vino, con bicchieri di carta e patatine rigorosamente versate dall’alto. A non potersi nemmeno rubare l’accendino.

A riscoprire il potere dello sguardo, per comunicarsi il proprio affetto. Un colpo di gomito o di tallone, le braccia allargate per simulare un abbraccio. D’altronde è l’anima della gente che ci è mancata. E la distanza imposta è sempre stata solo fisica. Quella sociale, per alcuni, non aveva mai avuto bisogno di essere proibita.

Nel frattempo i flirt si fanno davvero curiosi. I single, usciti da un’intensa 2 mesi con se stessi, contro ogni attesa fanno tutto tranne saltarsi addosso. Sarà questa strana sensazione di doversi riabituare al contatto quasi come se fosse la prima volta nella vita, sarà che il virus ha insegnato a tanti a fermarsi a pensare, e non buttarsi sulle cose. Ci si osserva, ma si sta ben attenti prima di spezzare la distanza.

Tempo di rischiare

“Oh drink a bit of wine, we both might go tomorrow” (Dai, bevi un bicchiere di vino, potremmo entrambi non esserci domani), cantava Jeff Buckley nella sua immensa Grace. Una voce e un volto che a questa terra non erano mai appartenuti, e che il cantante ha lasciato a soli 30 anni, annegando nel Wolf River in cui aveva, su un colpo di testa, deciso di fare una nuotata. Se l’esempio non è da ripetere, la frase non è da sottovalutare.

Si ha paura di lanciarsi, nelle relazioni come sul lavoro, quando proprio quello che è successo ci dice che di domani non abbiamo alcuna certezza, e che bisogna prendersi quello che si desidera. Rischiare, andare nella direzione che più ci è intima, per sentirci veramente a casa. Prenderci cura di chi amiamo, condurre una vita sana, centrare gli obiettivi. Ma anche lasciarci andare alla leggerezza, e ridere. Ridere fino alle lacrime.

 

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