
Per sei anni “Mia Moglie” è stato accessibile pubblicamente su Facebook. Non un innocuo club di coppie consenzienti, ma una vetrina di corpi femminili esposti senza consenso: mogli, compagne, fidanzate, persino parenti come “zie”, fotografate e caricate alle spalle delle dirette interessate. Il format era sempre lo stesso: post sessisti, e – spesso per eludere controlli e segnalazioni – immagini infilate nel primo commento, così da risultare meno visibili ai filtri automatici.
I thread diventavano subito un mercato del corpo, con battutacce, pagelle, richieste di “altre foto”, inviti a spiare e rimandi verso chat private, altri gruppi e soprattutto verso Telegram, percepito come “più discreto”.
Chi c’era dentro: gli “insospettabili”
No, non erano solo profili fake. Frugando tra gli account ancora pubblici – quelli che non si erano schermati come “partecipanti anonimi” – saltavano fuori identità in chiaro: poliziotti e militari, medici e dirigenti sanitari, avvocati, docenti universitari, direttori di banca, insegnanti. Gli stessi che fuori da Facebook dovrebbero curare, proteggere, educare, amministrare giustizia. Molti sono padri di famiglia, mariti “perbene”. La parola giusta è una: insospettabili. Ed è proprio questo che fa schifo: l’ipocrisia.
L’innesco pubblico (e il ritardo di Meta)
La rimozione è arrivata solo dopo la denuncia pubblica e la valanga di segnalazioni alla Polizia Postale. Tra chi ha acceso i riflettori ci sono attiviste come Biancamaria Furci e la scrittrice Carolina Capria (@lhascrittounafemmina), che hanno mostrato la portata del fenomeno. Meta, a quel punto, ha motivato la chiusura con la violazione delle policy su “sfruttamento sessuale degli adulti”. Bene. Ma davvero servivano sei anni, migliaia di post e quasi 32mila iscritti per “accorgersene”? Lentezza imperdonabile. E intanto, materiale rimosso a singhiozzo, screenshot che circolano, link a gruppi satelliti che fioriscono altrove.
Non un caso isolato: un ecosistema di gruppi e canali
Digitare “mia moglie” nella ricerca di Facebook spalanca un catalogo di derivazioni e succursali (“Io e la mia ca**o di moglie”, “I fan di mia moglie”, “Vi presento mia moglie”, “Le amiche di mia moglie”). Una strategia di moltiplicazione: chiudi uno, se ne aprono due. Su Telegram il meccanismo è ancora più spregiudicato: inoltro rapido, archivi, anonimato, forward a cascata. È qui che il branco si sente al sicuro e ricomincia. “Mia Moglie” è stato solo il portone principale di un condominio di spazzatura digitale.
Come funzionava la macchina dell’abuso
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Raccolta: scatti rubati, foto intime inviate in fiducia e poi tradite, immagini con volti tagliati per “ripulire” la coscienza.
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Esposizione: post “goliardici”, primo commento con l’immagine, richiesta di “materiale extra” via DM.
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Validazione: la folla di like, emoticon, complimenti tossici, insulti sessisti.
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Smistamento: link ad altri gruppi, canali Telegram, chat di scambio.
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Impunità percepita: “Siamo in tanti, è solo uno scherzo”, “è pubblico, quindi si può”. La solita menzogna per lavarsi le mani.
La legge c’è (e viene ignorata)
Dal 2019 l’art. 612-ter del Codice Penale punisce chi diffonde immagini o video sessualmente espliciti senza consenso con reclusione da 1 a 6 anni e multe da 5.000 a 15.000 euro. Punto. È reato. Eppure la percezione comune – in questi gruppi – è che “online non è davvero reato”, che “sono solo foto”, che “lo fanno tutti”. Falso. È violenza. È sfruttamento. È umiliazione pianificata.
“È solo fantasia”? No: è violenza digitale strutturale
Qui non si giudicano gusti o fantasie private tra adulti consenzienti. Qui si parla di assenza di consenso, di una cultura che tratta le donne come oggetti di proprietà da esibire, scambiare, sezionare a colpi di commenti. È la stessa cultura che normalizza il branco e che, quando viene chiamata col suo nome, ribatte accusando le donne di “bigottismo”. Lo si è visto anche nelle ore finali del gruppo: centinaia di interventi femminili e la solita reazione stizzita di chi si crede intoccabile.
Le voci che hanno rotto il silenzio
L’attivismo civico ha fatto ciò che piattaforme e moderazioni tardive non hanno fatto: ha mostrato il fango. Denunce pubbliche, segnalazioni, contatti diretti ai familiari di alcuni iscritti per avvisarli di ciò che accadeva. Dal fronte politico sono arrivate parole chiare: c’è chi parla di “mascolinità tossica” da combattere senza sconti e chi definisce il fenomeno per quello che è, violenza digitale strutturale. Non basta “prendere le distanze”: servono esposti, indagini, responsabilità.
La “comunità dello stupro” che si autoalimenta
“Mia Moglie” ha mostrato la banalità del male in salsa social: la convivenza “cordiale” tra l’utente che applaude, quello che rilancia, quello che finge di non vedere, quello che “non è d’accordo ma resta”. È la collusione di massa che rende illeciti e abusi un passatempo. E sì, casi come quello di Gisele Pelicot – ricordato più volte nelle reazioni pubbliche – insegnano che la violenza non nasce dal nulla: viene preparata, addestrata, sdoganata in spazi come questi. Sono l’anticamera del danno nel mondo reale.
“Ma alcuni si erano iscritti per denunciare”
È vero: in molti sono entrati per contestare e segnalare. Alcuni hanno avvisato direttamente mogli e figli di membri del gruppo, altri hanno fornito documentazione alla Postale. Questo però non cancella l’evidenza: per sei anni migliaia di persone hanno operato alla luce del sole. Un intero ecosistema ha potuto crescere indisturbato, mentre altre community “gemelle” restano attive altrove.
Meta e responsabilità: l’urgenza di passare dai banner ai fatti
Meta ha chiuso il gruppo invocando le proprie policy. Bene, ma tardivo. È necessario:
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Moderazione proattiva, non solo su segnalazione.
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Team specializzati su revenge porn e violenza di genere, con tempi di rimozione certi e pubblici.
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Tracciamento dei gruppi fotocopia: stop alla rincorsa infinita tra chiusure e riaperture.
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Collaborazione strutturata con le autorità: canali dedicati, non la casella “segnala e spera”.
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Conservazione forense dei dati: perché le indagini abbiano prove solide e non svaniscano con la chiusura del gruppo.
Che cosa deve succedere adesso (davvero)
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Indagini e responsabilità individuali: non solo gli “admin”. Chi pubblica, chi inoltra, chi archivia materiale non consensuale è parte del reato.
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Sanzioni concrete: pene accessorie, interdizioni professionali nei casi previsti dalla legge, quando la condotta è compatibile con incarichi di particolare fiducia pubblica.
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Formazione obbligatoria per categorie sensibili (forze dell’ordine, sanità, scuola, PA): chi tutela i diritti deve riconoscere l’abuso digitale a colpo d’occhio.
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Educazione al consenso: nelle scuole, nei luoghi di lavoro, nelle università. Non è un “tema femminile”: è il fondamento della convivenza.
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Supporto alle vittime: strumenti rapidi di rimozione, tutela legale agevolata, sportelli psicologici; linee dirette con la Postale; percorsi di de-indicizzazione.
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Responsabilità delle piattaforme: valutazioni di impatto, report trasparenti sugli abusi di genere, audit indipendenti.
Chiamare le cose col loro nome
Non “ragazzate”, non “spinte goliardiche”, non “fantasie”. Qui parliamo di uomini senza moralità né maturità emotiva, allevati in una società malata che li rassicura: “tanto non succede niente”. La chiusura di “Mia Moglie” non è un traguardo: è la prova del fallimento di anni di tolleranza. E di un patriarcato che continua a permutare, adattarsi, ricomparire altrove.
Chiudere non basta
Spegnere un interruttore è facile. Ripulire lo scolo che ha nutrito per anni questa cloaca è il lavoro vero. “Mia Moglie” è stato uno specchio sporco che ci ha mostrato l’ovvio: la violenza non è un incidente, è un sistema. O lo spezziamo ora – con leggi applicate, piattaforme responsabili e una cultura del consenso praticata, non predicata – o accetteremo che il prossimo “gruppo fotocopia” sia solo questione di tempo.