Mattarella nella lista nera russa: propaganda o verità scomoda?

Più che indignarsi per l’inclusione nella lista russa, sarebbe utile riflettere sull’intolleranza che abbiamo alimentato nel nome dell’Ucraina.

Sergio Mattarella

Che la Russia abbia incluso il presidente italiano Sergio Mattarella in una lista di figure occidentali accusate di russofobia ha suscitato, in Italia, un’ondata prevedibile di indignazione istituzionale. Il ministro Tajani ha convocato l’ambasciatore russo, mentre la premier Meloni ha bollato l’iniziativa come “propaganda”. Eppure, dietro l’eccesso retorico e le rituali scomuniche, la domanda resta: la Russia ha torto a parlare di russofobia in Italia?

Dispiacerà a molti ammetterlo, ma non completamente.

Negli ultimi anni, specialmente dopo l’invasione dell’Ucraina, abbiamo assistito in Italia (come nel resto d’Europa) a un clima sempre più intollerante nei confronti di tutto ciò che è russo. E non si parla solo di sanzioni economiche o di posizioni politiche dure, legittime in un contesto bellico. Parliamo di una vera e propria stigmatizzazione culturale: direttori d’orchestra allontanati, ballerini esclusi dai teatri, corsi universitari sospesi perché trattavano Dostoevskij, artisti boicottati per la sola colpa di essere russi. Anche giornalisti italiani accusati di “putinismo” sono stati messi alla gogna, o peggio, silenziati.

Non si tratta di episodi isolati, ma di un clima. Un clima che, per usare parole care al nostro presidente, ha tratti “intolleranti verso opinioni diverse dalle proprie” e si rifugia in “slogan pregiudiziati”. A questo proposito, Mattarella stesso ha tracciato un parallelo fra l’invasione russa dell’Ucraina e l’espansionismo hitleriano. Può essere una posizione condivisibile per alcuni, ma è certamente divisiva. E, nel contesto della memoria storica russa della Seconda guerra mondiale, può risultare non solo offensiva, ma anche provocatoria.

La Russia ha visto nella dichiarazione un’offesa non banale. E non va dimenticato che l’Unione Sovietica, con tutte le sue colpe storiche, pagò il prezzo più alto per la sconfitta del nazismo, con oltre 25 milioni di morti. Paragonarla oggi al Terzo Reich non è soltanto una mossa retorica: è un’accusa che tocca nervi profondi.

Si potrà obiettare che Mosca ha strumentalizzato tutto questo in chiave propagandistica. Probabile. Ma ciò non toglie che, se oggi siamo accusati di russofobia, è anche per atteggiamenti che, al di là delle nostre intenzioni, rasentano il pregiudizio sistemico. Cacciare artisti e sportivi non perché sostengono Putin, ma solo perché sono russi, non è un atto politico: è discriminazione. E questo tipo di logica, che colpisce l’individuo in base alla sua origine, è la negazione stessa del principio democratico.

La cultura non è un’arma da guerra. Lo sport non è propaganda. La lingua russa, la musica di Čajkovskij, la danza del Bol’šoj, non sono strumenti dell’invasione. Colpirli significa non punire un governo, ma punire un popolo.

La risposta italiana all’elenco del Cremlino è stata tutta giocata sul tono dell’oltraggio: “Come osate?”, “È inaccettabile!”. Ma sarebbe forse il caso di rispondere con un po’ di autocritica. E riconoscere che se la Russia ci accusa di russofobia, ha almeno alcuni motivi per farlo.

Non è un cedimento. È un segno di maturità democratica. Solo chi sa guardarsi allo specchio può dirsi davvero libero.