
L’attentato contro Sigfrido Ranucci non è soltanto un episodio criminale, è un segnale politico, un termometro dello stato di salute della democrazia italiana. Una bomba piazzata sotto l’auto di un giornalista investigativo non è mai un gesto isolato, ma un messaggio indirizzato a chi ancora crede che raccontare il potere, denunciarne le deviazioni, svelarne le ipocrisie sia un diritto costituzionale e non un azzardo personale.
Ranucci è uno dei pochi volti rimasti del giornalismo d’inchiesta televisivo, di quella tradizione che ha fatto scuola con Report, ereditando la lezione di chi, prima di lui, ha sfidato i silenzi e le complicità del potere. Che un giornalista debba muoversi oggi con un’auto blindata e una scorta armata dice molto più di mille analisi accademiche, racconta un Paese in cui la verità non è più un bene pubblico, ma una minaccia da neutralizzare.
La delegittimazione come strategia del potere
Eppure la risposta ufficiale è la solita, indignazione di rito, dichiarazioni istituzionali, condanne formali. Tutto giusto, tutto dovuto. Ma non basta. Perché il clima che ha reso possibile un attentato del genere non nasce nel vuoto. È figlio di anni in cui la libertà di stampa è stata corrosa non solo dalle mafie, ma da un progressivo e sistematico processo di delegittimazione del giornalismo critico. Troppo spesso sono stati proprio rappresentanti delle istituzioni, ministri, parlamentari, esponenti di governo, a bollare i cronisti come “faziosi”, “terroristi mediatici”, “nemici del popolo”.
La verità come bersaglio
Quando la classe dirigente querela i giornalisti per il solo fatto di aver fatto domande, quando i tribunali diventano un’arma per intimidire e non per garantire giustizia, si apre la strada all’autocensura, la più subdola delle censure. Il messaggio è chiaro, chi indaga sul malaffare rischia non solo l’isolamento, ma la rovina personale. E se a questo si aggiungono minacce, pedinamenti, sorveglianze occulte, allora il diritto di cronaca smette di essere un pilastro democratico e diventa un mestiere di frontiera.
Non è un caso che la Federazione Europea dei Giornalisti abbia segnalato l’attentato al Consiglio d’Europa come “un attacco che fa arretrare di decenni la democrazia in Italia”. È un riconoscimento amaro, ma necessario, la libertà d’informazione non si misura dalle dichiarazioni di principio, bensì dal grado di protezione e rispetto di chi la esercita.
Il prezzo del giornalismo libero
In un Paese dove il giornalismo d’inchiesta viene ridotto a spettacolo o a reato d’opinione, la verità diventa pericolosa. E quando la verità diventa pericolosa, la democrazia vacilla.
Ranucci, nel corso della sua carriera, ha toccato nervi scoperti: corruzione, criminalità organizzata, collusioni tra affari e politica. Lo ha fatto con rigore e con prove, ma anche con il coraggio di chi sa che la libertà costa. Ora quella libertà è sotto attacco, non solo con la violenza fisica ma con la lenta erosione del rispetto pubblico verso chi informa.
Una libertà da difendere ogni giorno
La solidarietà delle istituzioni è necessaria, ma dovrà tradursi in atti concreti, protezione reale per i giornalisti minacciati, riforma delle querele temerarie, indipendenza dei media pubblici, tutela del pluralismo informativo. Altrimenti l’indignazione di oggi diventerà la complicità di domani.
Sigfrido Ranucci non è soltanto un giornalista sotto scorta, è il simbolo di una libertà che rischia di sopravvivere solo dietro un vetro blindato.
E una democrazia che mette la verità sotto scorta, prima o poi, finisce per blindare anche la coscienza dei suoi cittadini.