A ridosso dalla scadenza fissata dagli Stati Uniti, nei palazzi della diplomazia, nelle redazioni europee e nelle sale operative delle agenzie di intelligence, si parla ormai soltanto di un documento che nessuno ha ancora visto davvero ma che condiziona ogni decisione: un “piano di pace in diciannove punti”, un’articolazione ridotta e riscritta del più discusso e controverso testo americano in ventotto punti pubblicato in primis da Financial Times e Washington Post.
Di quella versione originaria, trapelata per intero e rimbalzata da Al Jazeera a Newsweek, si conoscono la struttura, la filosofia politica e perfino le implicazioni economiche: dal riconoscimento de facto delle conquiste territoriali russe alle limitazioni sull’esercito ucraino, dall’obbligo costituzionale di rinunciare alla NATO alla prevista reintegrazione accelerata di Mosca nell’economia globale e, in prospettiva, nel G8. È stato un testo che ha scosso l’Europa come un terremoto, spingendo molte capitali a protestare apertamente contro quello che consideravano un compromesso inaccettabile, un accordo che chiedeva all’Ucraina di rinunciare al proprio futuro in cambio di una pace provvisoria e potenzialmente illusoria.
Proprio da quella tempesta diplomatica è nata la versione successiva, quella che oggi circola soltanto nei corridoi dei negoziati. Secondo quanto riportato da Meduza, PNP e Kommersant, dopo i colloqui di Ginevra il documento americano sarebbe stato ridotto da ventotto a diciannove punti, una potatura significativa motivata dalle reazioni sia ucraine sia europee. Le fonti russe parlano con cautela, ma concordano su un fatto: non è stato chiarito quali elementi siano stati eliminati o riscritti. È un piano che esiste e non esiste allo stesso tempo, una presenza ingombrante ma invisibile, il classico “documento fantasma” che cerca di determinare il corso degli eventi prima ancora di essere reso pubblico.
La prima reazione significativa è arrivata da Mosca. Il Cremlino, riferiscono l’agenzia Interfax e l’edizione russa di The Moscow Times, ha ammesso che “non tutto il piano americano è accettabile”, ma ha riservato la critica più dura alla controproposta europea, giudicata “non adatta agli interessi della Russia”. Dietro questa formula diplomatica si nasconde una verità semplice: la versione targata Bruxelles non concede ciò che l’originale americano offriva implicitamente o esplicitamente. L’Europa non accetta la rinuncia forzata dell’Ucraina alla NATO, non accetta il tetto rigido all’esercito ucraino fissato in seicentomila uomini e non è disposta a legittimare alcuna trasformazione territoriale maturata con la forza. È una posizione che riflette la consapevolezza, ribadita più volte anche dal Guardian e dal Politico, che un accordo troppo indulgente verso Mosca sarebbe una sconfitta strategica per l’intero continente.
Nel frattempo, e quasi come in un contrappunto scenico, i leader europei si sono riuniti in Angola, per un vertice straordinario convocato d’urgenza. Una scelta che ha sorpreso molti, ma che testimonia la volontà dell’Unione di non essere spettatrice di un negoziato condotto sopra le proprie teste. Secondo quanto riportato dall’Ukrainian National News e dalle corrispondenze europee, l’obiettivo della riunione era duplice: definire una linea comune e impedire che gli Stati Uniti e la Russia, giocando di sponda l’una con l’altra, potessero determinare un accordo che l’Europa sarebbe poi obbligata a sostenere finanziariamente e politicamente per i prossimi decenni.
In questo quadro teso, l’Ucraina appare come il soggetto più esposto e allo stesso tempo il meno libero. Le parole del presidente Zelenskij, raccolte dall’Associated Press, raccontano un Paese stretto fra due minacce: la prospettiva di un compromesso che molti ucraini considererebbero una resa e la possibilità di perdere l’appoggio americano se non dovesse accettare almeno in parte la cornice negoziale proposta da Washington. È un equilibrio pericoloso, che rischia di isolare Kiev proprio nel momento in cui le trincee si fanno più dure, l’inverno si avvicina e la capacità militare russa continua a beneficiare delle nuove alleanze con Teheran e Pyongyang.
Washington, dal canto suo, non nasconde l’urgenza. Versioni e retroscena rilanciati da Newsweek e Axios indicano che la scadenza posta all’Ucraina per rispondere al piano non è un semplice “termine tecnico”: rappresenta una pressione politica esplicita, una leva con cui la Casa Bianca tenta di guidare il negoziato verso un esito presentabile al Congresso e all’opinione pubblica americana. È un modo per dire a Kiev che le condizioni storiche non sono più le stesse del 2022 e che la finestra dell’aiuto militare non è infinita.
A completare il quadro c’è la posizione russa, che attende e osserva. Le dichiarazioni del portavoce Dmitrij Peskov, riportate dal Moscow Times, rivelano una strategia ormai classica: evitare di prendere impegni prima che gli avversari abbiano scoperto le proprie carte. Mosca dice di voler esaminare “con attenzione il contenuto finale”, una formula che permette al Cremlino di mantenere un ruolo di arbitro e, al tempo stesso, di sfruttare le divisioni fra Stati Uniti ed Europa, fra Europa occidentale e orientale, fra il governo ucraino e le sue resistenze interne.
Ma cosa c’è davvero dentro quei diciannove punti? I frammenti ricostruiti dalle fonti russe suggeriscono la rimozione del passaggio sugli asset russi congelati, un dettaglio citato anche da Bloomberg e ripreso da RBC, segno che la questione dei beni sequestrati a Mosca continua a essere un nervo scoperto. Altri capitoli, come la riattivazione della centrale di Zaporožʹe sotto supervisione dell’Agenzia internazionale per l’energia atomica o il ripristino dei trattati nucleari START, sembrano invece essere rimasti intatti. Ma senza un testo pubblico, tutto ciò che circola è un mosaico incompleto, un’ombra proiettata da una luce che nessuno controlla pienamente.
Quel che è certo è che giovedì diventerà il giorno delle risposte. Non perché il conflitto finirà o perché un accordo verrà automaticamente firmato, ma perché l’Ucraina dovrà pronunciarsi, la Russia dovrà reagire e gli Stati Uniti dovranno decidere se proseguire con la pressione, modificarla o ritirarla.
Ed è proprio in questa vigilia carica di tensione che l’Europa si trova davanti a uno specchio che non può evitare. È raro vedere i leader europei muoversi insieme prima degli Stati Uniti, e questo, al di là della scenografia diplomatica, è un segnale: l’Europa è l’attore più esposto del dopoguerra. Se decide di essere protagonista — e non spettatrice — ha la forza per farlo? L’altra faccia della medaglia è quella che nei corridoi di Bruxelles nessuno pronuncia ad alta voce: l’Unione non ha una difesa comune, può proporre un piano ma non può imporlo militarmente, e sa bene che gli Stati Uniti detengono ancora il “rubinetto militare”. Se Washington vuole spingere Kiev in una direzione, l’Europa può protestare, frenare, persuadere… ma non fermare.
Il “piano dei diciannove punti” rimane dunque un paradosso diplomatico: invisibile eppure ingombrante, mai reso pubblico ma intenzionato – sul ruolo diplomatico – a spostare equilibri e generare fratture. Ciò che accadrà nelle prossime ore dipenderà dalla risposta dell’Ucraina, dalla capacità del mondo occidentale di presentarsi unito e dalla volontà della Russia di scoprire, o meno, le proprie carte. Il futuro del vecchio continente è nascosto dentro un documento che nessuno ha ancora letto e che, paradossalmente, sembra già avere un peso specifico tutto suo.
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