
“La Georgia non è Russia”: non è solo uno slogan, ma un grido di dolore e resistenza che da duecento giorni risuona nelle strade di Tbilisi e, ieri, ha attraversato anche Piazza della Scala, sotto il palazzo del Comune di Milano. A manifestare c’erano cittadini georgiani, giovani, famiglie, attivisti ed esponenti di Europa Radicale, uniti da una sola richiesta: nuove elezioni libere in Georgia, dopo il contestato voto del 26 ottobre 2024, che ha riconfermato al potere il partito filorusso Sogno Georgiano, tra denunce di brogli e violenze.
L’iniziativa è stata organizzata dalla Comunità georgiana di Milano insieme a Europa Radicale, per protestare contro l’incontro istituzionale avvenuto nei giorni scorsi tra il Sindaco Beppe Sala e una delegazione del governo georgiano definito “illegittimo” dagli attivisti.
A parlare, davanti a una folla commossa e determinata, è stato Igor Boni, coordinatore di Europa Radicale, che ha lanciato un appello forte e diretto: “Eravamo a Tbilisi durante le elezioni, e abbiamo visto coi nostri occhi i brogli, le intimidazioni, la repressione. Da allora, per 200 giorni, migliaia di georgiani sono in piazza, pacificamente, a rivendicare la loro identità europea. In risposta, hanno ricevuto pestaggi, arresti arbitrari, violenze sistematiche. Tutti i leader dell’opposizione sono stati messi a tacere. È ora che l’Italia e l’Europa aprano gli occhi”.
Boni, che durante la manifestazione si è scritto il numero 200 sulla fronte, come gesto simbolico, ha parlato senza mezzi termini di un “governo usurpatore e fascista”, accusando l’esecutivo di Tbilisi di seguire le orme autoritarie del Cremlino. “La Georgia è sotto assedio da anni. L’Occidente non può continuare a voltarsi dall’altra parte. L’occupazione dell’Abkhazia e dell’Ossezia del Sud è altrettanto inaccettabile quanto quella della Crimea e del Donbas. È lo stesso schema. E noi lo stiamo tollerando”.
Il momento più toccante è arrivato quando alcuni manifestanti, con bandiere dell’Unione Europea sulle spalle, hanno letto ad alta voce le testimonianze di attivisti georgiani torturati o incarcerati. La richiesta, unanime, è che l’Unione Europea e l’Italia si impegnino ufficialmente per garantire nuove elezioni in Georgia, “sotto controllo internazionale”.
Boni ha inoltre chiesto un gesto concreto al Sindaco di Milano: “Sala ascolti la voce della Comunità georgiana. Incontrare i rappresentanti di un governo che reprime il proprio popolo è stato un errore. Ma è ancora possibile rimediare: apra le porte di Palazzo Marino a chi chiede libertà, democrazia e giustizia”.
Dopo la guerra del 2008, con l’occupazione russa di Abchazia e Ossezia del Sud, Tbilisi è diventata una delle frontiere più esposte del confronto tra Mosca e l’Occidente. Il partito Sogno Georgiano, pur formalmente favorevole all’integrazione europea, ha progressivamente avvicinato la Georgia agli standard politici russi: repressione delle opposizioni, limitazione della libertà di stampa, violenze di piazza, leggi anti ONG e propaganda antioccidentale.
La recente riconferma elettorale del governo, avvenuta in un clima di intimidazioni e denunce di brogli, ha segnato un punto di rottura. Mentre Bruxelles ha concesso a Tbilisi lo status di Paese candidato all’ingresso nell’UE, il governo georgiano ha approvato leggi illiberali sul “controllo degli agenti stranieri”, in pieno stile russo. Una contraddizione che mina la credibilità dell’intero processo di allargamento europeo.
La posta in gioco è alta: se la Georgia venisse definitivamente assorbita nella sfera d’influenza russa, ciò costituirebbe una pesante sconfitta strategica per l’Occidente, con effetti domino su Moldavia, Armenia e persino sui Balcani. La Russia, colpita dalle sanzioni e isolata sul piano internazionale, ha intensificato l’uso di strumenti ibridi – disinformazione, ingerenze elettorali, diplomazia energetica – per mantenere il controllo nella regione.
In questo contesto, l’appello lanciato da Milano non può restare inascoltato. Le piazze di Tbilisi ci ricordano che la democrazia non si difende con le parole, ma con le scelte. È tempo che l’Europa decida da che parte stare.
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