La Fenice: quando la politica soffoca l’autonomia culturale

La scelta di un direttore musicale richiede esperienza condivisa, non scorciatoie istituzionali

Beatrice Venezi

La vicenda che sta scuotendo il Teatro La Fenice di Venezia non è semplicemente un caso di cronaca musicale. È un episodio che tocca il cuore della cultura italiana, perché dimostra quanto sia fragile il confine tra la politica e l’autonomia delle istituzioni artistiche.

La nomina di Beatrice Venezi a direttore musicale del teatro lagunare è stata salutata dal governo come una scelta di prestigio. Ma le prime reazioni, quelle che contano davvero, non arrivano dai palazzi romani, bensì dall’orchestra e dal coro della Fenice, che all’unanimità hanno espresso contrarietà. È una frattura non di poco conto: in nessun grande teatro al mondo si imporrebbe un direttore musicale senza la condivisione delle masse artistiche.

Il maestro Fabio Luisi, genovese, figura di primo piano sulla scena internazionale, già al Metropolitan di New York, a Dresda, a Lipsia e oggi direttore stabile a Dallas, Tokyo e Copenaghen, lo ha detto con chiarezza: «La Fenice non è una palestra per un giovane direttore. Ha bisogno di un nome che aumenti la qualità, non di chi ne approfitta per motivi di carriera». Non è un attacco personale, né una questione politica. È un giudizio tecnico, autorevole, che rispecchia un dato di fatto: a 35 anni, senza un ampio repertorio e senza esperienze consolidate nei maggiori teatri, non si è pronti per guidare un’istituzione come La Fenice.

Luisi ha aggiunto che la gestualità della Venezi è «scolastica, rudimentale, priva di maturità». Non un’ostilità di principio, ma un’osservazione professionale: la musica non si dirige per pura coreografia, il gesto deve tradurre l’idea musicale. E quando persino un direttore di fama mondiale dichiara di non scorgere in lei quel talento latente che potrebbe giustificare un rischio, le parole pesano.

Altre voci, come l’ex sindaco Paolo Costa, che seguì la ricostruzione della Fenice dopo l’incendio, hanno confermato l’inopportunità della scelta: «Imporre un direttore musicale a un’orchestra che lo disconosce è inaccettabile». Non c’entra la politica, non c’entra il genere. È una questione di metodo e di merito.

All’estero, ricorda Luisi, un simile scenario sarebbe impensabile. Nelle grandi istituzioni musicali del mondo anglosassone sono le commissioni miste, con la partecipazione dei musicisti, a selezionare i direttori. La politica non entra, al massimo entrano gli sponsor. In Europa vale lo stesso principio: un direttore viene scelto dopo avere già lavorato con l’orchestra e averne guadagnato la fiducia. Qui, al contrario, si è calato dall’alto un nome che non ha il consenso interno.

Se la vicenda è diventata politica, è perché la politica ha voluto trasformarla in una bandiera. L’argomento delle discriminazioni di genere non regge: oggi le donne sono protagoniste in molti podi internazionali, senza bisogno di corsie preferenziali. Né serve agitare lo spauracchio di complotti “rossi”: l’opposizione è venuta compatta da chi la musica la fa, non da chi la commenta.

Il vero problema non è Beatrice Venezi, che ha ancora davanti a sé anni per crescere e dimostrare eventualmente il proprio valore. Il problema è Venezia. Un teatro come La Fenice non può permettersi esperimenti identitari né investiture premature. Ha bisogno di figure di fama mondiale, riconosciute dagli orchestrali e rispettate dal pubblico.

Il governo, se vuole davvero difendere la cultura italiana, dovrebbe comprendere che imporre un nome senza ascoltare chi dovrà lavorarci ogni giorno è una violazione dello spirito stesso delle istituzioni culturali. La Fenice non è un trampolino politico né un laboratorio di consenso. È un tempio della musica.