
Mentre Giorgia Meloni prepara la valigia per Washington, con l’agenda piena di promesse da offrire a Donald Trump, l’asse mondiale si sta spostando altrove. Non sarà l’abbraccio con gli Stati Uniti, né il ritorno a un’atlantismo nostalgico a proteggere l’Italia e l’Europa dal cambiamento epocale già in corso: quello della nuova centralità della Cina. Il Dragone non aspetta, non si ferma, non si fa intimidire dai dazi americani. E soprattutto non perde tempo. Lo stesso non si può dire dell’Italia, che, con la retorica del “contenimento”, ha scelto di uscire dalla Via della Seta, rinunciando a una delle poche strade pragmatiche per restare agganciata ai nuovi equilibri globali.
Sánchez va a Pechino, l’Italia resta indietro
Il viaggio del premier spagnolo Pedro Sánchez a Pechino ha fatto storcere il naso a Palazzo Chigi, ma rappresenta, in realtà, un gesto politico coraggioso e lungimirante. Mentre noi ci affanniamo a rincorrere Trump nella speranza di veder cadere i dazi, la Spagna apre canali economici e commerciali solidi con la seconda potenza mondiale. Fa bene Sánchez, perché è lì che si gioca il futuro dell’industria, dell’energia, dell’innovazione tecnologica. Non possiamo ignorare che molta della tecnologia italiana, soprattutto quella legata all’elettronica, alla manifattura avanzata e alla mobilità elettrica, è già migrata verso Oriente. La Cina non è più solo la “fabbrica del mondo”. È un laboratorio di innovazione, e l’Italia sta pagando dieci anni di ritardo sull’elettrico e sull’intelligenza artificiale.
I dazi americani e l’errore del protezionismo
Meloni punta tutto sull’unità del fronte occidentale. Ma quale fronte? Gli Stati Uniti non trattano più l’Europa come un alleato, ma come un concorrente da contenere. I dazi imposti dagli Usa penalizzano le nostre imprese, bloccano le esportazioni, rallentano l’interscambio. Non è un caso che si parli a Palazzo Chigi di “zero per zero”, come se la cancellazione dei dazi fosse un favore da ottenere, e non un diritto da rivendicare. E nel frattempo? La Cina costruisce fabbriche in Ungheria, Germania, Serbia. Investe miliardi e crea posti di lavoro, mentre noi chiudiamo le porte e ci preoccupiamo che Trieste diventi un porto strategico per le merci cinesi. Ma perché no? Meglio farlo noi che lasciare ad altri la regia della nuova logistica globale.
L’Africa contesa: Cina avanti, Europa assente
Anche sull’Africa, la retorica anti-cinese non regge. È vero, la Cina si è “allargata”, ma lo ha fatto con una visione chiara: infrastrutture, investimenti, alleanze strategiche. E noi? Discutiamo se sostenere o meno qualche progetto, mentre Pechino costruisce ferrovie, porti e centrali in tutta l’Africa sub-sahariana. Non possiamo limitarci a temere l’espansione cinese: dobbiamo capirla, studiarla e interagire con essa. Perché ogni metro perso in Africa è un metro regalato a chi sa muoversi con rapidità e lucidità.
Il vero pericolo: restare a guardare
Il protezionismo non è la risposta. L’isolazionismo nemmeno. L’Italia non può permettersi il lusso di chiudere la porta a Est per compiacere un’America che ci guarda con sempre meno considerazione. La scelta di abbandonare la Via della Seta è stata un errore. In un mondo che cambia così in fretta, non possiamo restare fermi per paura. La Cina sarà protagonista nei prossimi anni, che lo vogliamo o no. E marginalizzarla oggi significa auto-escludersi da ogni gioco geopolitico ed economico del futuro. Serve realismo, non ideologia. Serve politica, non propaganda. Serve, finalmente, una visione.