
Israele ha scelto la strada dello scontro frontale con la comunità internazionale. La decisione di impedire all’UNRWA, l’Agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati palestinesi, di tornare a operare nella Striscia di Gaza, nonostante l’ordine vincolante della Corte Internazionale di Giustizia (ICJ), segna un passaggio cruciale: quello dell’esplicita ribellione contro il diritto internazionale.
L’ICJ, massimo organo giuridico delle Nazioni Unite, ha stabilito che Israele, in quanto potenza occupante, deve consentire l’ingresso e la distribuzione degli aiuti umanitari, vietando l’uso della fame come arma di guerra. Una sentenza che si fonda sui principi basilari del diritto umanitario e sui trattati internazionali ratificati anche dallo Stato ebraico. Eppure, Tel Aviv ha reagito con una dichiarazione di aperta insubordinazione: «Per noi, l’UNRWA non metterà mai più piede a Gaza».
Un progetto politico di isolamento e controllo
Dietro questa frase, pronunciata da un alto funzionario israeliano, si nasconde un progetto politico preciso. Israele non intende tollerare alcuna presenza internazionale che possa monitorare, documentare o limitare la sua azione nei territori palestinesi. L’UNRWA, con la sua rete di scuole, ospedali e centri di assistenza, rappresenta non solo un’istituzione umanitaria, ma anche un testimone scomodo delle condizioni di vita imposte ai civili di Gaza. Escluderla significa cancellare gli occhi del mondo da una delle crisi più gravi del nostro tempo.
Il rifiuto sistematico di ogni vincolo esterno
La reazione di Israele alla sentenza della Corte è emblematica di una concezione del potere che rifiuta ogni vincolo esterno. Tel Aviv accusa da tempo le Nazioni Unite di “pregiudizio” e considera ogni richiamo al rispetto del diritto internazionale come un atto di ostilità politica. L’obiettivo, in sostanza, è mantenere il pieno controllo del territorio senza interferenze, nessun organismo internazionale, nessun osservatore, nessun giudice. Solo la forza e la discrezionalità militare.
Le accuse infondate e la guerra della propaganda
È un atteggiamento che non riguarda soltanto l’UNRWA, ma più in generale il rapporto di Israele con il sistema multilaterale. La condanna della Corte viene liquidata come “politicamente motivata”; gli organismi delle Nazioni Unite vengono descritti come corrotti o manipolati da Hamas. Eppure, le accuse israeliane contro l’agenzia umanitaria si sono rivelate fragili, nessuna prova concreta è emersa a sostegno della presunta infiltrazione di Hamas nei suoi ranghi. Le inchieste indipendenti hanno confermato l’inconsistenza di tali affermazioni, e molti Paesi donatori, inizialmente titubanti, hanno ripristinato i finanziamenti sospesi.
Il rifiuto del controllo e la crisi del diritto internazionale
Israele sembra voler imporre una narrativa in cui ogni critica è automaticamente complicità con il terrorismo. È una strategia efficace sul piano interno, ma devastante sul piano internazionale, perché mina i fondamenti stessi della cooperazione globale. Se ogni Stato potesse ignorare impunemente le decisioni della Corte Internazionale, l’intero sistema del diritto internazionale si dissolverebbe nel caos.
La vicenda dell’UNRWA va dunque oltre la disputa su un’agenzia o sugli aiuti umanitari. Essa tocca il nodo politico essenziale: il rifiuto di Israele di essere sottoposto a qualsiasi controllo esterno sulle sue azioni nei territori occupati. Dietro la retorica della sicurezza e della lotta a Hamas, si intravede la volontà di esercitare un dominio assoluto su una popolazione privata di diritti, di risorse e di rappresentanza.
Il silenzio dell’Occidente e il rischio del precedente
La Corte dell’Aia ha parlato con la voce del diritto. Israele ha risposto con quella dell’arbitrio. La comunità internazionale, ora, è chiamata a scegliere se accettare questa sfida o se difendere l’idea, sempre più fragile, che il diritto internazionale valga per tutti, anche per gli Stati che si proclamano “democratici”.