
L’attacco dei droni israeliani contro i caschi blu dell’ONU nel sud del Libano non è soltanto un incidente militare. È un messaggio, un avvertimento dal tono mafioso rivolto non tanto a Hezbollah o a Beirut, quanto alla comunità internazionale. Quattro granate sganciate nei pressi del personale Unifil, una a meno di venti metri, non possono essere archiviate come un errore di calcolo o un incidente di percorso. Come ha sottolineato il ministro della Difesa Guido Crosetto, questa volta si è trattato di una “scelta precisa”.
Israele ha voluto mostrare, con cinismo e brutalità, che la missione di pace delle Nazioni Unite non deve ostacolare i suoi piani. Non è la prima volta che Tel Aviv ignora apertamente le regole del diritto internazionale, ma colpire chi rappresenta la comunità internazionale, chi opera con mandato del Consiglio di Sicurezza, segna un salto di qualità nella sfida all’ordine multilaterale. È come dire: qui decidiamo noi, e nessuno può frapporsi tra Israele e i suoi obiettivi militari.
Che la tempistica non sia casuale lo conferma il contesto. Solo pochi giorni fa, il Consiglio di Sicurezza ha votato per chiudere definitivamente la missione Unifil entro il prossimo anno, dopo quasi mezzo secolo di presenza. Una decisione maturata sotto la pressione di Washington e Tel Aviv, insofferenti verso una forza che, pur con limiti e fragilità, rappresentava pur sempre uno sguardo esterno sulla linea di confine più esplosiva del Medio Oriente. Eliminato questo presidio internazionale, Israele potrà muoversi con meno vincoli e meno testimoni.
L’ONU nel mirino
Il paradosso è che Unifil, nel tempo, è stata accusata di debolezza tanto dagli israeliani quanto da Hezbollah. Ma il fatto stesso che fosse lì, che monitorasse, che riferisse all’ONU, costituiva un elemento di bilanciamento. Non a caso il ministro degli Esteri francese ha ricordato che i caschi blu devono poter esercitare pienamente il loro mandato, e che la loro sicurezza va garantita. Dichiarazioni di principio che rischiano di restare tali, se non accompagnate da una presa di posizione concreta contro chi ha deciso deliberatamente di metterli nel mirino.
In questo episodio c’è un ulteriore dato politico da non sottovalutare: Israele sapeva. Unifil aveva informato l’esercito israeliano in anticipo dell’operazione di sgombero delle barricate stradali. Non c’è stata sorpresa, non c’è stata confusione sul terreno. C’è stata, piuttosto, la volontà di colpire per intimidire, per dimostrare che nessuno può toccare neppure un sasso vicino al confine senza l’assenso dell’Idf. È un linguaggio di forza che, dietro la retorica della sicurezza nazionale, mira a riaffermare un dominio esclusivo sul sud del Libano.
Le reazioni internazionali
Le reazioni europee, da Roma a Parigi, mostrano sdegno e condanna. Ma la vera domanda è se questo sdegno resterà confinato alle dichiarazioni. L’Italia, che guida oggi la missione con il generale Abagnara e vi contribuisce con oltre un migliaio di soldati, non può accontentarsi di un generico invito alla prudenza. Perché se i caschi blu diventano bersagli autorizzati, allora non è più soltanto in gioco il destino del Libano meridionale: è la credibilità stessa dell’ONU come strumento di garanzia collettiva.
Netanyahu ha scelto di umiliare la comunità internazionale, colpendo non un nemico ma coloro che dovrebbero rappresentare la neutralità e la tutela della pace. È un gesto che rivela quanto poco valore Tel Aviv attribuisca alle regole comuni, e quanto preferisca la legge del più forte. La comunità internazionale è ora posta davanti a un bivio: subire in silenzio questo messaggio mafioso, o dimostrare che l’ONU non è solo una sigla da deridere.
Se prevale la prima opzione, Israele avrà ottenuto il risultato: libertà di manovra totale e impunità garantita. Ma a quel punto, sarebbe inutile parlare ancora di diritto internazionale. Sarebbe stato demolito da quattro granate cadute nel sud del Libano, a venti metri da chi era lì per difenderlo.